Attualità

LIBERALMENTE CORRETTO – Il parlamentare che non “parlamenta”

di Michele Gelardi -


Il paradosso della nostra repubblica parlamentare è che il parlamentare “parlamenta” molto poco, mentre in una repubblica presidenziale “parlamenterebbe” di più; ne trarrebbe giovamento l’intero assetto democratico del Paese. Per intendere bene il paradosso, è necessario preliminarmente sgombrare il campo dal grande fraintendimento insito nella classica tripartizione di Montesquieu dei poteri dello Stato. Il primato della legge, cui obbedisce il Governo e il Giudice, non significa affatto che il massimo potere appartenga al Legislatore. In realtà il vero potere si esercita comandando agli altri, non a sé stessi, come ci ha insegnato Bruno Leoni. Sotto questo profilo l’unico vero potere è quello amministrativo, esercitato mediante atti – non per nulla chiamati potestativi – che vincolano direttamente il destinatario, ma non esprimono norme valide erga omnes. Al contrario, il legislatore, proprio perché emana norme valide per tutti, vincola anche sé stesso. La maggioranza parlamentare, nel momento in cui prevale sulla minoranza e fa approvare una legge, esercita un’egemonia politica e culturale, ma non un potere vero e proprio, per la semplice ragione che, un attimo dopo l’approvazione, il parlamentare di maggioranza è tenuto a rispettare la legge (da lui voluta) non meno del parlamentare di minoranza (il quale si è opposto). Sicché si potrebbe pur dire che il parlamentare di maggioranza esercita un “potere”, ma solo se questo fosse inteso in senso lato e improprio, come “potere” istantaneo, sussistente un attimo prima dell’approvazione e perduto un attimo dopo. Se ne inferisce che il metodo migliore per assicurare che la sovranità appartenga al popolo è l’elezione diretta del titolare del potere in senso stretto e proprio (Presidente del Consiglio), non già dei soli componenti del “potere” in senso improprio e istantaneo.
Ma veniamo alla funzione del Parlamento propria della repubblica parlamentare: il voto di fiducia nei confronti del Governo. Anche in questo caso il parlamentare è titolare di una prerogativa istantanea. Dando la fiducia, egli concorre a determinare l’insediamento del Governo; gode del privilegio di apporre la corona sulla testa del Re, ma una volta incoronato, il vero potere appartiene al Re. E tuttavia questo Re, in una democrazia parlamentare, può perdere la corona, cosicché il parlamentare non solo gode del privilegio di mettere la corona, ma anche di toglierla. Orbene, questa prerogativa del parlamentare di (concorrere a) determinare la sussistenza del Governo, mentre esalta la sua personale forza negoziale, da far valere magari fuori delle aule parlamentari, al contempo lo priva, almeno in parte, della sua autonomia di giudizio e della sua effettiva capacità di iniziativa legislativa dentro le aule parlamentari. Dal suo voto potrebbero dipendere le sorti del Governo, nel bene e nel male, cosicché egli, subendo tutti i possibili condizionamenti di partiti e lobbies, nazionali ed estere, preferisce tacere, piuttosto che aprire il contraddittorio. L’uomo medio, personificato nel nostro parlamentare-tipo, non è un cuor di leone, sicché piega facilmente la schiena al cospetto del potente di turno; e perciò rinuncia a priori a “parlamentare”. Si spiega così che, perfino sui temi etici, i parlamentari si dividono in due schieramenti, perfettamente corrispondenti a quelli di maggioranza e minoranza pro e contro il Governo, avendo rinunciato al discernimento personale.
Se, al contrario, il Presidente del Consiglio fosse eletto dal popolo, il potere esecutivo e il cosidetto potere legislativo andrebbero su strade diverse e il parlamentare ritroverebbe la pienezza del suo “libero arbitrio”; tornerebbe a “parlamentare” di gran lena, non essendo sottoposto al “ricatto” del voto di fiducia. La legge risulterebbe più “digeribile” per tutti, perché meno segnata dall’impronta della “fazione”; questo vantaggio non da poco si aggiungerebbe a quello della stabilità dell’esecutivo: a) nei consessi internazionali, il nostro Presidente del Consiglio non sarebbe più un vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro; b) l’orizzonte temporale di cinque anni renderebbe più agevoli le scelte politiche, necessarie nel medio-lungo periodo e tuttavia impopolari nel breve.


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