Attualità

LIBERALMENTE CORRETTO – La socialità della proprietà privata

di Michele Gelardi -


Von Hayek sosteneva che il passaggio dalla civiltà tribale a quella moderna si è realizzato con l’introduzione del diritto di proprietà privata. Nella tribù vigeva la comunione dei beni e nessuno dei suoi membri poteva vantare un diritto esclusivo su una porzione di essi; l’individuo viveva nel chiuso di rapporti precostituiti e immodificabili, in obbedienza al capo tribù; i rapporti esterni appartenevano alla tribù nel suo complesso, non già alla persona. L’istituto della proprietà privata ha eliminato i limiti della tribù, rendendo possibile lo scambio generalizzato di beni e servizi al di fuori del circuito tribale, la divisione del lavoro su basi ampie, l’iniziativa economica privata e lo sviluppo scientifico e tecnologico consequenziale. L’individuo si è emancipato dalla “clausura” tribale grazie allo jus excludendi, esercitato erga omnes, su una ben precisa porzione di beni, dei quali ha potuto disporre a piacimento, proprio perché sottratti a qualsivoglia potestà altrui. Si è liberato della tribù e del capo tribù, solo quando è divenuto proprietario (e s’intende esclusivo) di qualcosa. Insomma la proprietà privata storicamente ha costituito lo strumento di liberazione di milioni di persone.
Su questo dovrebbero riflettere i tanti cantori della “modernità” in formula “non possederete nulla, sarete felici”. Il pericolo del regresso verso la dimensione tribale è dietro l’angolo e nemmeno tanto difficile da decifrare, dal momento che i falsi miti della città in 15 minuti e del denaro elettronico possiedono la “virtù” di una certa, indiretta e involontaria eloquenza.
La prospettiva di non possedere un mezzo di locomozione proprio ed esclusivo si palesa inquietante, messa in relazione al restringimento spazio-temporale dell’orizzonte di vita. In nome della “comodità”, ci si dovrebbe rinchiudere nella piccola gabbia neotribale del quartiere di appartenenza, avendo il grande privilegio della “condivisione”. La prospettiva per la nostra libertà non pare affatto piacevole. Allo stesso modo sarebbe perniciosa l’integrale sostituzione del denaro contante con quello elettronico. Il passaggio dal cartaceo all’elettronico segna la trasformazione della relazione giuridica: dal diritto di proprietà esercitato sulla res, si passa a una sorta di diritto di credito vantato nei confronti della banca depositaria. Mentre il diritto di proprietà si esercita direttamente, senza intermediazione alcuna, il diritto di credito postula la cooperazione volontaria dell’obbligato. Mentre il denaro contante è nell’immediata disponibilità del possessore, quello elettronico è reso disponibile solo dall’adempienza del depositario.
Se costui non vuole o non può adempiere, la res sfugge al potere dispositivo del titolare nominale. A questa stregua, il denaro elettronico può ritenersi oggetto di proprietà piena, solo nell’ipotesi in cui sia giacente in un cassetto dell’etere (cloud) inaccessibile a tutti, ad esclusione di colui che possiede la chiave; non quando viene estratto dal conto corrente bancario. L’involontaria eloquenza delle due guise di “modernità” può aprirci gli occhi sull’abisso, nel quale ci farebbe precipitare la scomparsa della proprietà privata.
Quando la proprietà è indivisa, le regole giuridiche non possono essere uguali per tutti. La gestione dei beni comuni suppone l’apporto di tutti; e l’apporto individuale alla gestione comune non può che essere differenziato, per la semplice ragione che l’organismo ha bisogno di una molteplicità di funzioni e competenze; ma se ognuno deve svolgere la sua specifica funzione, per il buon fine della gestione comune, la sua parte è necessariamente diversa da quella degli altri.
Nell’ordine organico, indirizzato a un fine specifico, non vige la norma generale. Nell’orchestra le note del flauto sono diverse da quelle del violino; nell’esercito le regole del generale sono diverse da quelle del soldato. La condivisione dei beni impone una finalità comune e perciò postula un ordine costrittivo con regole differenziate, che può essere “sopportato” solo in ristrette comunità, fondate su una forte identità religiosa. Gli amish o i monaci vivono bene all’interno delle loro comunità, gerarchicamente organizzate, perché si fanno docili strumenti di una finalità condivisa; ma la moderna società aperta non può “sopportare” l’ordine (finalizzato) delle comunità monastiche, chiuse e gerarchiche. Non si condividono i fini e si dovrebbero condividere i mezzi! Ciò è possibile solo al prezzo della tirannide. In sintesi: la proprietà privata è il presupposto della libertà; la comunione dei beni il presupposto della tirannide; dalla società aperta al neotribalismo il passo è breve: basta abolire la proprietà privata


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