Attualità

LIBERALMENTE CORRETTO – L’Amministrazione inefficiente della giustizia

di Michele Gelardi -


Si può pensare che i mali che affliggono tutte le branche della giustizia italiana siano riconducibili a una radice ideale comune, ravvisabile nella cultura dello Stato autoritario, che diffida della parte privata?
Prendiamo in considerazione le lungaggini del processo civile. Il giudice impiega decenni alla ricerca della verità. Egli istruisce il processo dall’inizio alla fine, raccogliendo le prove su istanza dell’attore e del convenuto. Le parti argomentano, sollecitano, si dolgono, espongono, ma solo l’occhio del giudice fa luce sui fatti di causa. Ovviamente la sua vista è pur sempre indiretta, filtrata il più delle volte attraverso le lenti del consulente tecnico d’ufficio, il quale nei fatti diventa il vero arbitro del diritto controverso. Il processo civile sarebbe molto più snello e rapido, se le parti potessero provare direttamente i fatti, sui quali si basano le loro rispettive pretese, e il giudice, avendo innanzi a sé un fascicolo processuale già interamente istruito, si limitasse a valutare il torto e la ragione, all’esito di un contraddittorio, che magari si esaurirebbe nel corso di una sola udienza. Ci sarebbe da temere ben poco in merito alla “verità” emergente, per almeno tre motivi: a) il mito della verità neutra e oggettiva impedisce di vedere che la base del giudizio è, sempre e comunque, una “verità processuale” accertata da un uomo a rischio di fallibilità, ancorché chiamato giudice o CTU; b) sull’eventuale “falsità” della prova prodotta in giudizio graverebbe un doppio deterrente, la sanzione penale e la smentita della parte avversa; c) il carattere privato degli interessi in gioco. Al contrario, l’ordinamento italiano pare supporre che, perfino nel processo civile, sussista un interesse pubblico sovrastante, addirittura distinto da quello generale dell’amministrazione della giustizia. Infatti, quando il processo arriva in cassazione, il procuratore della Repubblica è chiamato a dare il suo parere sulla materia del contendere e non si capisce quale interesse pubblico debba essere “ulteriormente” tutelato, oltre quello di fare giustizia in nome del popolo italiano, al quale sovrintendono ben 5 componenti del collegio giudicante. Questa presenza superflua è spiegabile solo in chiave simbolica, in quanto espressiva dell’idea che nemmeno gli interessi oggetto del giudizio appartengono interamente alle parti in causa.
Nel processo amministrativo il ricorrente è solo un questuante; può solo umilmente chiedere al giudice che annulli l’atto illegittimo della pubblica amministrazione. Alla fine di un lungo processo, nel corso del quale dovrà riproporre periodicamente la medesima domanda iniziale, pena la decadenza, otterrà l’agognato annullamento, ma non un nuovo atto in sostituzione di quello annullato. Dovrà adire nuovamente il giudice per la nomina di un commissario ad acta, il quale infine procederà, bontà sua, ad emanare l’atto legittimo. Ovviamente, sulla neutralità di tale giudice c’è poco da eccepire. Solo i maliziosi fanno notare che il governo nomina alcuni componenti del Consiglio di Stato, che deve pronunciarsi sugli atti dell’amministrazione. E che dire poi della neutralità del giudice tributario, nel cui collegio siedono anche ex funzionari dell’agenzia delle entrate? Gli allievi di Dracula, chiamati a giudicare l’operato del maestro, sono comunque distaccati e imparziali; non c’è da dubitarne. Nulla da eccepire poi sul fatto che tale giudice ha un “datore di lavoro” che si chiama MEF Né si può recriminare sul fatto che il ricorrente deve comunque pagare in anticipo (poco meno di) quanto richiesto dal conte Dracula, essendo un presunto evasore. Nel settore penale, la concezione autoritaria dei rapporti Stato/cittadino si esprime, sia nella dinamica processuale, sia a monte, nella formulazione delle fattispecie di reato. La paritaria condizione delle parti processuali è negata in radice dalla “colleganza” pm-giudice; a ciò si aggiunge l’onnipresenza della norma penale in tutti i campi della vita associata. Lo Stato, che vuole regolare tutto, affida alla sanzione penale l’effettività della regola, molto spesso generica e imprecisa; il che si traduce in eccesso di rischio penale per il cittadino. Gli italiani si difendono con l’inerzia, ossia spegnendo la propria intraprendenza (emblematica la paura della firma da parte dei sindaci); gli stranieri, evitando di investire in Italia.
In conclusione, l’autoritarismo di Stato danneggia il bene pubblico più grande, la certezza del diritto, che alimenta l’iniziativa privata e il dinamismo economico-sociale. Autoritarismo e inefficienza vivono in perfetta simbiosi


Torna alle notizie in home