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MUSICA CLASSICA – Quella Rapsodia in blu che attrae l’immaginario

di Riccardo Lenzi -


Fin dall’esposizione del tema principale, introdotto in apertura dal celebre glissando del clarinetto, la “Rapsodia in blu” di George Gershwin attrae l’immaginario. Questo avviene esattamente da un secolo, dalla sua “prima” avvenuta il 12 febbraio 1924 alla Aeolian Concert Hall di New York con l’autore al pianoforte. Centenario che il “New York Times” ricorda entusiasticamente, sottolineando come questo brano vada annoverato fra i pochi che hanno cambiato il corso della storia della musica.
Eppure debuttò con un intento prettamente sperimentale, almeno così intendeva il direttore d’orchestra Paul Whiteman che l’aveva commissionato. L’idea della bacchetta della prestigiosa Palais Royal Orchestra era quella di provare un nuovo genere musicale in cui il jazz risultasse – intendeva un po’ spocchiosamente – nobilitato dalle forme musicali della grande tradizione europea. “Si era molto discusso intorno ai limiti del jazz. Si diceva che il jazz era schiavo del rigore ritmico, che era troppo legato alla danza. Io decisi di farla finita per sempre con questi preconcetti», scrisse in proposito Gershwin, “Ho costruito la mia Rapsodia come una specie di caleidoscopio musicale dell’America, con il nostro miscuglio di razze, il nostro brio nazionale, i nostri blues, la nostra follia metropolitana”. Aveva composto il brano in un breve lasso di tempo, lasciando al collega Ferde Grofé l’arrangiamento orchestrale e riservandosi alcuni passaggi per pianoforte solo, nei quali avrebbe jazzisticamente improvvisato (per questo la partitura presentata al concerto riportava alcune notazioni, a indicare l’istruzione “aspetta il mio cenno”, riferito al gesto del solista che poi si sarebbe potuto scatenare nei suoi assolo). Fin dalla “prima”, alla quale assistettero personaggi come Stravinskij, Kreisler, Heifetz, Sousa, Mengelberg, Rachmaninov e Stokowsky, a questa composizione arrise un successo trionfale che fu confermato in tutte le sale da concerto del mondo, diventando il brano di musica sinfonica statunitense più celebrato, rappresentando quasi l’essenza spirituale di una nazione. Tanto che non si può parlare di una particolare ripresa di questo brano in occasione del centenario, poiché ci si imbatte regolarmente in una sua esecuzione, essendo il più frequentemente programmato per quanto riguarda i repertori sinfonici dei compositori statunitensi. E poi, al di là del palco del concerto, i temi dell’opera vengono abitualmente ascoltati sul grande schermo, a partire dal film biografico su Gershwin girato da Irving Rapper nel 1945 e, per fare qualche esempio, ad apertura e chiusura di un capolavoro come “Manhattan” di Woody Allen, oppure per l’entrata in scena di Leonardo Di Caprio ne “Il grande Gatsby”, o nella colonna sonora di “Fantasia 2000” della Disney (da noi più prosaicamente da Paolo Villaggio nella serie dei “Fantozzi”). E in televisione nei cartoni animati dei Simpson. E nella danza: proprio in questi giorni a esempio Iratxe Ansa e Igor Bacovich iniziano la loro collaborazione con il Ccn/Aterballetto presentando la loro versione della “Rhapsody in Blue”, un pezzo per sedici danzatori costruito su questo brano (il debutto è previsto al Teatro Regio di Parma, il 17 febbraio). Come nelle iniziative sportive: così fece la grande pattinatrice canadese Gabrielle Daleman in occasione dei Mondiali di Helsinki e delle Olimpiadi Invernali 2018. E nelle cabine dei voli della United Airlines. Funzionando anche come propaganda: alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, nel pieno dell’ennesima Guerra Fredda, quando 84 pianisti eseguirono la rapsodia, accompagnati da una moltitudine di ballerini. Il suo successo, come quello di Gershwin è, in senso nobile, il tipico prodotto dell’arte popolare. Non arte colta che si possa dire popolare in quanto elabori aspirazioni popolari trasformandole in sintesi rigorose, bensì in quanto vive nelle forme stabilite dal complesso di anonime iniziative formato dal gusto collettivo di un ambiente. In cui elementi desunti dal jazz e dal folklore negro e americano, insieme ad altri di provenienza colta, vengono a coagulare un prodotto dai riflessi immediati, indissolubilmente legato al quotidiano.


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