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Magistrati in allarme: la politica vuole tornare a fare politica!

Mentre la politica prova a riprendersi il suo mestiere, la corporazione giudiziaria grida allo scandalo: critiche vietate, privilegi no.

di Anna Tortora -


La riforma che fa tremare le toghe

C’è una frase di Luigi Bobbio che andrebbe incorniciata negli uffici giudiziari, giusto per ricordare dove finisce la magistratura e dove comincia la democrazia:
«Quelle che la corporazione giudiziaria proprio non sopporta sono l’autonomia e l’indipendenza della politica!»
Una frase semplice, chirurgica, quasi ovvia. Ma nel Paese dove la normalità è considerata sovversiva, e dove una parte delle toghe vive come un sacrilegio la sola idea che la politica torni a fare politica, ecco che diventa un atto di rottura.
La verità è che la corporazione non ama l’autonomia della politica.
La teme.
La soffre.
La vive come un affronto personale. E in questi giorni lo sta dimostrando con una fragilità quasi commovente.

Il caso Gratteri: l’intoccabile che fa politica ma guai a dirglielo

L’Anm denuncia “criticità e attacchi politici” contro Nicola Gratteri.
Una lamentela stupefacente, di quelle che ti fanno chiedere se davvero ci credono o se sperano solo che qualcuno ci caschi.
Perché, domanda banale: quando un Procuratore si trasforma nel frontman della campagna referendaria, cosa si aspetta, un applauso istituzionale?
Evidentemente sì.
Perché una parte significativa della magistratura rivendica il privilegio più grande: intervenire nel dibattito politico pretendendo, al tempo stesso, di essere immune da qualunque risposta o critica politica.
Un’asimmetria a dir poco surreale.
E ancora una volta Bobbio, con una lucidità che brucia:
“Gratteri nel suo intervenire su tutto lo scibile umano e rivendicare la sua apartiticità, non solo fa politica ma È e si gestisce come un soggetto politico. Con tanto di culto della personalità”.
Appunto.

Lo spauracchio da Prima Repubblica

Sul fronte argomentativo, la corporazione ricorre alla sua arma preferita: lo spaventa-popolo istituzionale.
“Con la separazione delle carriere i PM saranno ostaggio della politica”.
“Perderanno indipendenza”.
“Si apre la strada a chissà quali pressioni”.
La verità? Un romanzo. Un pretesto da assemblea di corrente.
E quando Gratteri prova a ridurre tutto a un dettaglio amministrativo –
«Se trenta magistrati all’anno chiedono di cambiare funzione e devono cambiare regione, per loro dobbiamo cambiare la Costituzione?» – finisce per certificare, senza volerlo, l’esatto contrario.
Perché se davvero c’è questa mobilità continua, confusa, indistinta tra chi accusa e chi giudica, allora sì: la riforma è necessaria. Urgente. Obbligatoria.

Il nodo reale: un potere enorme che teme la luce

La separazione delle carriere non toglie autonomia ai magistrati.
Toglie solo uno spazio grigio.
Toglie un’ambiguità.
Toglie un privilegio che nessun altro potere dello Stato possiede.
Ed è questo che spaventa:
non la riforma, ma la perdita della superiorità morale autoproclamata.
Non la politica che interferisce, ma la politica che non si lascia più intimidire.
Non la fine dell’indipendenza, ma la fine della rendita di posizione.
Perché oggi c’è un sistema che decide, orienta, filtra, impone.
Un sistema tentacolare che negli anni ha trasformato la Giustizia in un campo minato dove il cittadino entra da suddito e esce, quando va bene, da colpevole presunto.

Separazione carriere dei magistrati: la mistificazione finale

E allora sì, ve lo ripetono: “La riforma rende i PM meno indipendenti”.
Ma è una menzogna costruita a tavolino.
Un trucco, e nemmeno dei più raffinati.
La separazione delle carriere non dà un solo potere in più alla politica.
Non introduce una sola valvola di pressione sui PM.
Non cambia la loro autonomia funzionale di una virgola.
L’unica cosa che cambia è questo: per la prima volta dopo decenni, qualcuno mette un limite a un potere che non si considerava più limitabile.
E quando un potere vede un limite, si ribella.
Quando vede la luce, strilla.
Quando vede la democrazia che torna a pretendere il suo spazio, parla di golpe.
Ma stavolta il teatro è talmente evidente che il sipario cade da solo.
E la narrazione non regge più.

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