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Giovedì gnocchi, venerdì sciopero (generale)

di Giovanni Vasso -


Poche certezze, nella vita: le tasse, la morte, come diceva quello e lo sciopero generale, naturalmente al venerdì. Saranno settimane di mobilitazione contro la manovra. Si comincia già a fine mese: per il 28 novembre, Usb guiderà una giornata di astensione dal lavoro a cui parteciperanno anche i Cobas e altre sigle minori come Cub, Adl, Clap, Sgb e Sial. L’invito, a Landini, era stato fatto e recapitato nei modi e nei tempi giusti: vieni con noi, blocchiamo insieme l’Italia come abbiamo già fatto per Gaza, per la Flotilla. Solo che, stavolta, il capo della Cgil ha deciso di far da sé. E ha indetto uno sciopero generale che si terrà il 12 dicembre prossimo. “Di che giorno cade il prossimo sciopero generale?”, si è chiesta beffarda Meloni. Ecco. Cade di venerdì. Così come, sempre di venerdì, cade il 28 novembre. Così come, ieri, è caduto di venerdì lo sciopero dei trasporti. Giovedì gnocchi, venerdì sciopero. Per otto volte, quest’anno, son stati proclamati scioperi generali. Per cinque, guarda un po’ la sorte, lo sciopero è caduto di venerdì. Le poche, ma rassicuranti, certezze della vita.
Era certo, anzi certissimo, che la Cgil scegliesse di scendere in piazza contro la manovra. Si attendeva solo l’annuncio. Arrivato ieri. Maurizio Landini, bellicoso come al solito, ha tuonato contro le scelte del governo affermando che i salari vanno aumentati e ripetendo che da Meloni e Giorgetti non ha mai avuto alcuna occasione di dialogo. Epperò, il segretario generale della Cgil, più che attaccare è stato costretto a difendersi. L’avevano avvisato i colleghi, a cominciare da quelli della Cisl. Basta muro contro muro, non continuare a indire scioperi perché, alla fine, tutto perderà di valore e si svuoterà di senso. Ed eccoci, dunque, non a parlare delle rivendicazioni dei lavoratori ma dell’opportunità di scegliere il venerdì come giorno per incrociare le braccia. Landini, a dirla tutta, sceglie una strada non proprio originalissima (e un bel po’ populista) per difendersi dagli attacchi di Meloni, Forza Italia e della Lega: “Questi rappresentanti del governo si chiedono il perché e tentano di irridere quelli che fanno sciopero ma vorrei che portassero rispetto su un punto: non su chi lo proclama lo sciopero, ma sulle persone che decidono di farlo, perché le persone che sciopereranno, e sono convinto che saranno tante, sono quelli che con le tasse pagano il loro stipendio”. Giannini, buon’anima, non avrebbe saputo dire di meglio. Se il capo della Cgil sente di doversi difendere in termini così forti è evidente che un problema, grosso, lo avverta persino lui. Al punto da sentirsi costretto a ribadire di aver scioperato “anche quando c’era Draghi al governo”. Eppure quell’immagine dell’ex banchiere centrale che, a Landini, gli mette benevolo e paterno la mano sulla spalla, no, non è passata di mente a nessuno. A tal proposito, Carlo Calenda, che di certo non è un pericoloso revisionista di centrodestra, gli mette il sale sulla coda a Landini e, con ironia, gli assesta un colpo micidiale: “Sono contento che finalmente abbia convocato uno sciopero contro la deindustrializzazione del settore automotive ad opera dell’editore di Repubblica Elkann – ha scritto sui social -. Finalmente con coraggio ha rotto il tabù di una sinistra che ha spesso preferito i finanzieri agli operai! Bravo Maurizio. Perché è su questo lo sciopero del 12 vero?”. Ovvio che no. Ma il capo della Cgil ha l’ultima freccia al suo arco. Come Schlein, ricorre all’arma definitiva: l’antifascismo. Si scende in piazza, preferibilmente di venerdì, perché “prima della nostra democrazia, i primi atti del fascismo e la dittatura sono stati cancellare il diritto di sciopero, bruciare e chiudere le sedi sindacali e di impedire la possibilità di esistere a un sindacato libero e democratico che non risponde a questo a qual partito, a questo o quel governo, ma ai lavoratori”. Quelli che, da anni, stanno disdicendo in massa le tessere alla Cgil. Quelli che, ancora, incassano gli stipendi reali più bassi d’Europa e a cui il suo sindacato, che del guaio se n’è accorto solo ora che al governo c’è Meloni e il centrodestra, risponde con la proposta, che contraddice l’essenza stessa del sindacato ma piace tanto al Pd, del salario minimo. Certo, c’è sempre l’antifascismo salvi-tutti. E il ricordo di quelli, che erano gli anni del biennio rosso, paragonandoli a questi che più modestamente (e per fortuna), sono altri tempi. Un tempo, il nostro, in cui si scende in piazza perché la manovra è “ingiusta, sbagliata” e loro la vogliono “cambiare”. Di venerdì, sempre e soltanto di venerdì: ça va sans dire.


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