Via Poma, il delitto perfetto: chi protegge il vero assassino di Simonetta Cesaroni?
ROMA – Il 7 agosto 1990, Simonetta Cesaroni, vent’anni, veniva ritrovata morta all’interno di un appartamento al terzo piano di via Poma 2, nel quartiere Prati della capitale.
Da allora sono passati più di trent’anni, ma il suo assassinio resta senza un colpevole definitivo. Un caso che ha segnato la cronaca nera italiana e che, ancora oggi, grida giustizia. Malgrado tre decenni di indagini, interrogatori, perizie e processi, nessuno è stato condannato. L’unico imputato formale, Raniero Busco, fidanzato dell’epoca della vittima, è stato assolto in via definitiva nel 2014, dopo una lunga battaglia giudiziaria. Ma se non è stato lui, chi ha ucciso Simonetta? E soprattutto: perché non lo si è mai scoperto?
Simonetta viene trovata seminuda, trafitta da 29 coltellate, molte delle quali inferte dopo la morte. Nessuna effrazione, nessun oggetto rubato. Il delitto avviene all’interno degli uffici della AIAG, dove la ragazza lavorava come impiegata part-time per una società di contabilità. Il corpo viene scoperto ore dopo, in una stanza chiusa a chiave, in un edificio teoricamente sicuro. Le chiavi? Scomparse. Il coltello? Mai trovato. Gli orari? Contraddittori. I telefoni? Misteriosamente muti per ore. E le impronte? Ininfluenti. In altre parole: un delitto chirurgico, senza tracce evidenti, ma compiuto da qualcuno che conosceva bene luoghi, persone e abitudini.


Fin dall’inizio le indagini mostrano falle. La scena del crimine viene contaminata, la scientifica arriva in ritardo, le persone transitano liberamente tra i locali. Gli interrogatori sono confusi, le versioni si accavallano. Alcuni potenziali testimoni non vengono mai realmente ascoltati, mentre altri cambiano versione più volte.
Nel 2010, a sorpresa, viene arrestato Raniero Busco, a seguito di una perizia che individua una traccia di DNA compatibile sul reggiseno della vittima. Ma la prova viene successivamente considerata labile e contaminabile. Dopo una condanna in primo grado e un ribaltamento in appello, la Cassazione conferma: Busco è innocente.
E allora? Chi era presente nell’edificio? Perché non si è mai fatta luce sul giro di chiavi dell’ufficio, né su altri dipendenti, dirigenti o condomini che avrebbero potuto avere accesso ai locali?
Perché questo caso, a differenza di altri, non ha mai avuto un’accelerazione vera verso la verità? Troppi silenzi, troppe persone che “non ricordano”, troppe versioni che non tornano. Alcuni investigatori parlano di pressioni esterne, interferenze istituzionali, timori di scandali. Eppure, nessun movente è mai stato accertato con sicurezza. Nessuna relazione morbosa, nessuna pista sessuale dimostrata, nessun crimine economico evidente. Solo un sospetto: l’assassino di Simonetta potrebbe essere stato protetto. O perché insospettabile, o perché legato a contesti che era meglio non disturbare. Oggi, con le tecnologie forensi attuali, nuove analisi sui reperti (che la famiglia ha chiesto più volte di riesaminare), potrebbero aprire spiragli. Simonetta Cesaroni, invece, merita la verità. Non una verità mediatica, ma una verità giudiziaria, che riconsegni a lei e ai suoi familiari un nome, un volto, una motivazione. E che dica con chiarezza chi – da trent’anni – continua a coprire, proteggere o semplicemente ignorare il vero assassino di via Poma.
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