Sedia di Bolla danneggiata a Verona, l’arte ridotta a un selfie
La notizia è rimbalzata ovunque: una delle opere di arte contemporanea, una sedia dell’artista Bolla esposta a Palazzo Maffei a Verona, è stata fortemente danneggiata accidentalmente — o forse no — da un visitatore intento a farsi un selfie.
Un gesto apparentemente banale, che rivela però una tragedia culturale più profonda. Non è la prima volta che accade. Nel 2017, una ragazza rovesciò una fila di sculture esposte al 14th Factory di Los Angeles per uno scatto perfetto: danni per 200.000 dollari.
Nel 2020, a Napoli, un’opera di Enrico Castellani fu danneggiata da un visitatore che voleva immortalarsi con l’opera. Ora tocca a una “sedia arredata”, simbolo dell’arte povera o dell’oggettualità postmoderna, finita sotto i riflettori non per il suo valore, ma per la sua rottura.
Cos’è accaduto all’arte se basta un gesto inconsapevole per distruggerla, non solo fisicamente ma nel suo significato? Siamo passati dal pathos al pathos dei pixel, dalla fruizione contemplativa alla frenesia dell’autoritratto. Già Walter Benjamin, nel 1936, denunciava l’effetto della “riproducibilità tecnica” nel distruggere l’aura dell’opera d’arte. Ma oggi, più che l’aura, si distrugge il senso stesso dell’opera: la si trasforma in sfondo, cornice del proprio ego.
In una società dove il like vale più della lettura, dove l’immagine soppianta l’idea, l’arte viene consumata come tutto il resto: in fretta, in superficie, in funzione di sé. L’opera non è più un luogo dove si entra, ma una superficie su cui ci si riflette.
Susan Sontag, nel suo saggio On Photography, scriveva: “Fotografare è appropriarsi della cosa fotografata.” Oggi, invece, selfarsi con l’opera è sostituirsi ad essa. Non si guarda più l’arte, la si usa. Questo impoverimento non è solo estetico ma etico. Perché quando l’arte diventa oggetto di consumo anziché di coscienza, anche la responsabilità del fruitore scompare.
Nel Rinascimento, l’osservatore era parte attiva: davanti alla Cappella Sistina, ci si sentiva piccoli, ma anche elevati. Oggi, davanti al David di Michelangelo, si alzano smartphone e si gira le spalle all’opera.
Come ha scritto Umberto Eco in Apocalittici e integrati: “Il problema non è il mezzo, ma il livello di coscienza con cui lo si usa.” Il selfie con l’opera non è in sé un crimine. Ma se diventa l’unica ragione per andare a un museo, siamo di fronte a una mutazione antropologica.
Forse, come ammoniva Pier Paolo Pasolini “Non è la distruzione delle opere a preoccupare, ma la distruzione dei contesti che le rendono vive.”
La “sedia Van Gogh” se gosse andata del tutto distrutta nom sarebbe stata solo una perdita materiale. Questi gesto e quanto accaduto rappresenta lo specchio di una civiltà che ha confuso la cultura con l’intrattenimento, la bellezza con la posa, l’arte con il contenuto per storie da 24 ore.
E a perderci, non è l’opera. Siamo noi.
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