La Sicurezza oltre la cronaca
Non si può discutere di sicurezza e delle sue criticità sistemiche se il discorso pubblico resta imprigionato nella cronaca. Necessaria, certo, ma terreno instabile ed emotivo, che si presta a distorsioni e riduce la sicurezza a repertorio di emergenze, smarrendone la dimensione istituzionale e sociale. Disperdendo così, il significato profondo della delicata funzione affidata al Ministro dell’Interno e al suo Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, il Capo della Polizia di Stato, plasmata ad ordinamento civile, secondo la scelta dei Costituenti per un’autorità pienamente democratica.
Il primato dell’Autorità di Pubblica Sicurezza è una conquista costituzionale, non un relitto del passato. La sicurezza non può essere slogan o bandiera di parte, è una promessa civile. Lo ricordava Bobbio, una democrazia si misura dalla capacità di proteggere i più vulnerabili, non i già garantiti. Nelle nostre città l’insicurezza colpisce soprattutto chi è più fragile, anziani, lavoratori precari, migranti, donne, giovani delle periferie.
Una politica consapevole dovrebbe ripartire da qui, leggendo la sicurezza non come concessione al linguaggio d’ordine, ma come infrastruttura della libertà, generativa di uguaglianza. Visione che appartiene alla tradizione del pensiero gramsciano, che vedeva nello Stato l’organizzatore della vita collettiva, lo spazio in cui la persona si libera dalla mera sopravvivenza e diventa cittadino. Ma questa eredità, per restare vitale nel presente, deve innestarsi nel riconoscimento delle libertà economiche come fattore di autonomia reale di ogni cittadino, di ogni condizione sociale, secondo una sintesi non dogmatica tra la critica gramsciana dell’egemonia e il liberalismo economico regolato della tradizione social-democratica e popolare europea, che riconosce nell’impresa la funzione sociale come cardine di un mercato responsabile.
In questo quadro, il lavoro dei poliziotti non è ombra repressiva, ma tutela civica. Contenere la violenza non significa reprimere il dissenso, significa impedire che la brutalità trasformi la piazza in uno spazio disertato dalla civiltà. Già Sant’Agostino riconosceva nella dignità dell’essere umano la base universale della convivenza, ogni persona, prima di appartenere a un popolo, appartiene all’umanità, è civis mundi. Da qui una verità rimossa, la sicurezza non difende identità contro identità, non protegge schieramenti o militanze. Protegge le persone e le comunità più esposte.
Per questo evito le contrapposizioni più brucianti, antisionismo, antisemitismo, pro-Pal, pro-Israele. La sicurezza non giudica la geopolitica, respinge la violenza, qualunque vessillo la giustifichi. Rimette al centro la dignità che appartiene all’integrità di ogni persona, non alla sua bandiera. Questo è ciò che richiede la nostra Carta. Difendere la sicurezza significa difendere lo spazio abitato dalla libertà. La retorica che contrappone sicurezza e libertà è una finzione, la libertà non sopravvive nella barbarie, ha bisogno di regole, di ordine e di tutele, i fondamenti dello Stato, che non è arbitrio ma legge.
Su questa cornice occorre recuperare la visione depauperata dello Stato, rappresentato troppo a lungo solo nelle sue patologie e inefficienze. Bisogna restituirgli la sua funzione di garante della convivenza. Come ci ricorda Habermas, uno Stato ridotto a ingranaggio economico perde la sua ragion d’essere. La sua legittimità nasce dall’esercizio pieno delle sue funzioni, sicurezza e giustizia, i due pilastri della fiducia dei cittadini e della vita democratica.
Chi vuole tornare a parlare ai ceti popolari deve ricomporre questo quadro. Tutelare gli operatori della sicurezza non è cedere al securitarismo, è riconoscere che senza di loro non esistono scuole aperte, lavoro tutelato, libertà economica concreta, manifestazioni pacifiche. Distinguere tra forza legittima e abuso è dovere democratico, non moralismo. Confondere contenimento della violenza e autoritarismo significa non comprendere la differenza tra potere e autorità. La sicurezza è un bene comune che ha una doppia natura, progressista, perché tutela i più fragili e offre loro la possibilità di abitare la città senza paura; conservatrice, e non in senso reazionario, perché garantisce la continuità delle istituzioni e la loro fruibilità democratica.
È la premessa dell’inclusione, non il suo ostacolo. Dove domina la violenza non c’è uguaglianza, e quando l’uguaglianza viene meno si incrinano i valori costituzionali. Per questo serve una cultura della sicurezza alta, rigorosa, civile, una sicurezza che non nasca dalla cronaca, ma dalla visione dello Stato come comunità di destino, una sicurezza che non divide ma custodisce, che non teme il dissenso ma respinge la brutalità.
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