Editoriale

Affondata sul lavoro

di Tommaso Cerno -


di TOMMASO CERNO

Siamo davvero su un binario morto. Non chiamiamole più morti bianche. Perché fanno paura. Per quante sono e per come accadono. Perché a casa ci sono i figli che aspettano. E papà non tornerà più. C’è un problema anche di lessico nella repubblica fondata e poi affondata sul lavoro. Perché non abbiamo solo la morte fisica, ma anche quella etica dei salari bassi e quella sociale della disoccupazione.

Qui l’unica cosa bianca è il foglio su cui si potrà scrivere la parola fine a questo orrore. Che riempie giornali e Tv ma poi scompare nelle statistica. Ce lo ricorda ogni anno Sergio Mattarella. Con forza. Ma anche questa per l’Italia che stavolta l’ha scampata è diventata poco più che un’abitudine. Ecco come siamo diventati. Abituati all’emergenza, abituati alla morte, sconvolti quando avviene senza di fatto cambiare mai passo. Sarà anche difficile impedire un incidente, ma come è stato per il codice della strada bisogna che le indagini che accettano la verità portino il legislatore a distinguere sull’origine di quella morte. C’è sicuramente qualcosa che non si può evitare. C’è dappertutto e c’è sempre. In tutti gli ambiti.

Ma c’è anche il dolo, c’è anche la mancata sicurezza, ci sono le omissioni e ci sono luoghi dove lavorare significa rischiare la vita tutti i giorni. E’ lì che si pretende che lo stato intervenga. E stabilisca che non tutte queste morti sono accidentali. E punisca là dove l’incidente è causato dall’uomo, non tanto da ciò che può avere fatto ma da ciò che non ha fatto e avrebbe dovuto fare. Così come sulla strada l’incidente si chiama omicidio quando avviene per colpa dell’uomo, l’omicidio sul lavoro deve entrare nella cultura del Paese.

Perché solo con una cultura del danno, assieme a regole certe e a controlli perché le regole vengano applicate, noi possiamo fare tutti insieme un passo avanti e guardare finalmente quelle statistiche cambiare. È un imperativo non procrastinabile. Perché oggi la morte di questi cinque operai riporta la parola lavoro al centro delle cronache e del dibattito politico, e ci rendiamo tutti bene conto che quella parola nemmeno là dove la morte non è arrivata, per fortuna, ci mostra un Paese in crisi. Perché non c’è solo la morte fisica, c’è la morte del futuro di tante persone che nel lavoro trovano solo una mansione e qualche soldo, senza più ritrovarci quel GPS sociale che consentiva a ognuno, con i suoi mezzi e con i suoi talenti, di usare il lavoro per costruire il proprio ruolo dentro la società italiana.

Interroghiamoci sui salari più bassi dei Paesi industrializzati e se ci guardiamo indietro non riusciamo nemmeno noi a capire dove questo è cominciato, mentre altrove non succedeva e oggi nel dibattito sulla manovra torna la formula del taglio al cuneo fiscale. Una scommessa che ha sempre il lavoro al centro, perché funzionerà solo se davvero l’impresa si farà sostituto di Stato e investirà ogni centesimo di quanto riuscirà il governo a farle risparmiare nell’assumere e nel pagare degnamente gli addetti, perché tornino quei fondamentali che nella cultura d’impresa italiana sono stati nei decenni dello sviluppo e del boom non solo economico ma anche etico del nostro Paese.


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