Attualità

Che cosa ci insegna il caso di Indi Gregory

di Eleonora Ciaffoloni -


Indi Gregory ha perso la vita e ha perso la sua battaglia contro la malattia e contro la giustizia inglese, strenuamente combattuta da lei e dai suoi genitori. Perché sabato pomeriggio la piccola di otto mesi, affetta da una grave malattia mitocondriale, terminale, è stata trasferita in un hospice – e non a casa come richiesto dai genitori – per iniziare il distacco dalle macchine che la tenevano in vita. A nulla sono valsi i ricorsi presentati dai legali e dai familiari, come inutili sono stati gli appelli della diplomazia e del governo italiano – compresa la lettera inviata a Londra in extremis da Giorgia Meloni – che lunedì scorso aveva concesso la cittadinanza alla piccola Indi per tentare il trasferimento nel nostro Paese dove, ad accoglierla, ci sarebbe stato l’ospedale Bambino Gesù di Roma.

Eppure, per i giudici inglesi, il destino di Indi era già scritto. L’Alta Corte Inglese aveva scelto per lei il fine vita con la motivazione che il mantenimento in vita di una bambina di otto mesi, incurabile e senza prospettive future, era insostenibile. E così, come un cittadino italiano non può scegliere di inoltrarsi nella strada del suicidio assistito per porre fine ad una vita resa dolorosa, difficoltosa da una malattia, un cittadino inglese non può scegliere di rimanere in vita, seppur legato a un macchinario. Il destino scritto – da altri – per Indi Gregory ci porta a un interrogativo. C’è da chiedersi quando, indipendentemente dal credo religioso e dalle convinzioni del contesto culturale un cittadino, che sia italiano o inglese, potrà decidere il proprio destino. La sua vita e la sua morte


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