Economia

I dazi fanno sfrecciare l’automotive Ue negli States

di Giovanni Vasso -

epa12165828 A transporter stands loaded with new automobiles at Hyundai Motor Manufacturing Czech plant in Nosovice, Czech Republic, 02 June 2025 (issued 09 June 2025). In 2024, Hyundai Motor Manufacturing Czech’s plant in Nosovice, Moravian-Silesian region, produced 330,890 cars. The Tucson, Hyundai’s best-selling model in Europe, accounted for nearly 72 percent of last year’s production. EPA/MARTIN DIVISEK


Sarà pure come dicono da Bruxelles, sarà pure come dicono loro che la situazione dazi, a cui guarda con ansia crescente l’automotive, sta per rientrare e che, nel caso, l’Ue avrà tutte le armi a disposizione per fronteggiare il protezionismo Usa. Sarà, ma dalla Germania è piombata, ieri, la notizia dell’ennesima azienda europea che, per non far arrabbiare Donald Trump, ha deciso di investire negli States. Si tratta di Audi, che afferisce al gruppo Volkswagen, che, come riporta tra gli altri Der Spiegel, potrebbe costruire una nuova fabbrica direttamente negli Stati Uniti, con l’obiettivo di attivare la linea di produzione già entro il 2027, termine che può slittare, al massimo, al 2028. La factory verrebbe allestita nel Sud degli Stati Uniti a fronte di un investimento da ben quattro miliardi di euro. Se il progetto andasse in porto, si tratterebbe (per ora) del terzo impianto di produzione Vw negli Usa per il gigante dell’automotive tedesco che già può contare sulla fabbrica di Chattanooga, in Tennessee, e su un’altra in costruzione a Columbia, nella Carolina del Sud. Per Bruxelles è uno smacco. Che va oltre la questione dazi e la vicenda automotive. Uno smacco non solo economico, perché la strategia di Trump sta, evidentemente, funzionando richiamando in America le imprese. Ma, soprattutto, politico dal momento che Volkswagen era stata una delle grandi ispiratrici della svolta green sull’automotive voluta da Bruxelles. In perfetta solitudine, o quasi. Ma Volkswagen e Audi non sono certo le uniche imprese che hanno deciso di tenersi buono Trump investendo negli States. Prima di loro c’è stata Stellantis che, a gennaio scorso, ha promesso alla Casa Bianca di riaprire, entro il 2027, lo stabilimento di Belvidere, in Illinois, che era stato chiuso nel 2023 con la fine della produzione della Jeep Cherokee, e di portare quella della Dodge Durango a Detroit. Per Elkann, però, investire in America è più o meno un obbligo dal momento che, nel portafogli del brand del gruppo, ci sono marchi storici del Made in Usa, come Chrysler che, nei mesi scorsi, era stata al centro di una vera e propria sommossa popolare agitata sui social dagli azionisti delusi che ne chiedeva il ritorno in mani statunitensi.

 A maggio, invece, è toccato a Mercedes dare l’annuncio che ha reso felice l’amministrazione in carica: il suv più apprezzato della Casa, e cioè il Glc (ne ha venduti più di 64mila solo in America nel 2024), dal 2027 sarà prodotto non più in Germania ma a Tuscaloosa, in Alabama. Finita qui? Manco per sogno. Bmw punta, con decisione, ad aumentare la produzione nella fabbrica di Spartanburg da cui, come fu annunciato ad aprile, dovrebbero “uscire” ben 10mila vetture l’anno. Mal comune, mezzo gaudio. La situazione è spinosa tanto per l’Ue quanto per il Giappone. Unite, Bruxelles e Tokyo, dal fatto di veder sfrecciare via l’automotive verso le calde, accoglienti (e lastricate di contributi federali) strade americane. Toyota, ad aprile scorso, ha messo su e aperto, a Liberty in North Carolina, una gigafactory di batterie per auto elettriche e, in più, ha allargato la sua produzione a Georgetown. In tutto, gli investimenti di Toyota oscillerebbero tra i dieci e i 14 miliardi di dollari. Bisogna, però, considerare che da solo Trump non avrebbe mai potuto ottenere tutto questo solo minacciando dazi, sanzioni, e confini chiusi. Si tratta di una lunga, ed efficace, strategia Usa che ha portato le imprese europee (e non solo) a investire direttamente nell’industria americana. Avviata, tale strategia, dall’Inflaction Reduction Act che, dietro al paravento della lotta al carovita e, soprattutto, dell’incentivo alla transizione tech e green, ha riscritto le politiche economiche e commerciali degli Stati Uniti. Trump, nel suo primo mandato, ha cominciato. Biden ha proseguito offrendo sussidi e incentivi. The Don, di ritorno alla Casa Bianca, sta finendo l’opera. Il fatto è che il richiamo americano non ha funzionato (solo) con l’automotive. Ma che sono state decine e decine le imprese allettate dalle condizioni offerte dall’America e, soprattutto, dalla possibilità di poter accedere al suo ricchissimo mercato senza sbattere sui rigori delle tariffe doganali. In ogni campo della produzione.

L’Ue, però, al negoziato ci crede ancora. Il commissario Sefcovic, ieri, ha riferito su X di aver passato una “settimana” piena “di incontri produttivi con il Rappresentante al Commercio degli Stati Uniti, l’Ambasciatore Jamieson Greer, e il Segretario Howard Lutnick” e che “il nostro obiettivo prioritario resta quello di concludere un accordo proiettato verso il futuro”. Intanto, proprio Sefcovic, ha dovuto mettere una pezza con gli arrabbiatissimi cinesi dopo le accuse, veementi, pronunciate da Ursula von der Leyen al G7. La situazione, con Pechino, non è delle più brillanti e il summit di luglio, in cui la Cina chiederà la rimozione dei dazi a cominciare dall’automotive, si avvicina sempre di più.


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