Attualità

IN GIUSTIZIA – La ricerca della verità

di Redazione -


di ELISABETTA ALDROVANDI

“Durante una riunione del 2010 emerse che il Ponte Morandi aveva un difetto originario di progettazione e che era a rischio crollo. Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza e Riccardo Mollo mi rispose: ’Ce la autocertifichiamo’. Fu fatto un errore da parte di Aspi quando acquistò Spea, la società doveva stare in ambito Anas o del ministero, doveva rimanere pubblica. Il controllore non poteva essere del controllato. La mia idea è che c’era un collasso del sistema di controllo interno e esterno, del Ministero non c’era traccia. La mia opinione, leggendo ciò che emergeva, è che nessuno controllasse nulla”.
Queste sono le parole pronunciate in un’aula del Tribunale a Genova da Gianni Mion, ex Amministratore delegato della holding Edizione, di proprieta della famiglia Benetton. Mion è ex consigliere di amministrazione di Aspi e della sua ex controllante Atlantia.
Le sue parole hanno indotto il difensore di un altro indagato, l’ex direttore del primo tronco di Autostrade Riccardo Rigacci, a compiere un’azione determinante. L’avvocato ha chiesto di sospendere l’esame di Gianni Mion e di iscriverlo nel registro degli indagati, assieme ad altri 59. I giudici hanno però continuato ad assumere la deposizione riservandosi alla fine la decisione, ancora non comunicata. Parole forti e inaspettate, quelle di Mion, che hanno un sapore catartico, seppure a scoppio ritardato.
Il crollo del Ponte Morandi, avvenuto nella mattinata del 14 agosto 2018, che causò 43 morti, rappresenta il classico esempio da manuale di una tragedia annunciata. Di quelle che, ancora mentre la polvere delle macerie si mischiava alle lacrime dei genovesi e dei parenti delle vittime, aleggiava nell’aria e veniva bisbigliata dapprima timidamente, poi urlata a squarciagola. Tanti sapevano, tutti tacevano. Questo sembra essere il riassunto delle parole di Gianni Mion.
Parole che ovviamente dovranno essere verificate, anche se questo processo, più che diretto ad accertare se ci siano state responsabilità, sembra aver intrapreso la strada di decidere chi, tra le decine di imputati, sia più responsabile di altri. E chi non lo sia affatto. Il numero consistente di società che si occupava del Ponte Morandi, la stratificazione e suddivisione, a volte difficilmente definibile, dei compiti e delle competenze di ognuno, renderà sicuramente complicato il compito dei giudici, chiamati a decidere se i difetti originari presenti sul Ponte fossero tali da comportare il rischio di crollo, se questi elementi erano ben conosciuti da chi aveva il potere decisionale, e se furono effettuati tutti i controlli e le attività di messa in sicurezza previsti dalla legge.
Guardando i fatti, sembra difficile che tutto questo sia avvenuto. Ma la realtà processuale, ossia ciò che viene ricostruito in aula e che assume rilievo giuridico, è a volte parzialmente difforme dall’evento realmente accaduto, che può presentare elementi che sembrano fondamentali e dirimenti per inchiodare alle responsabilità, ma che in base alla legge sono ininfluenti. Per questo, è importante ricordare la netta distinzione tra responsabilità morale e responsabilità giuridica, che non sempre collimano ma anzi, spesso sono tra di loro profondamente divergenti. Le parole di Mion hanno il sapore di un cibo indigesto che si teneva nello stomaco da anni e che, inaspettatamente, ha deciso di rimettere proprio nel posto per lui più sconveniente, dove potrebbe essere indagato per una serie di reati gravi, come disastro attentato alla sicurezza dei trasporti, falso, disastro colposo e omicidio colposo plurimo.
Intanto, la ricerca della verità continua. Ed è necessario che proceda celermente, se non si vuole finire nel vortice, giuridico e mediatico, del rischio prescrizione. Perché anche quello è un altro aspetto, che nulla ha a che vede con i morti, ma con la legge dei vivi.


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