La sicurezza, tra diritti e autorità civile
La sicurezza non può essere letta solo con gli occhi della cronaca, è architettura istituzionale. È ciò che consente a una società di attraversare il conflitto senza precipitare nella violenza. Qui passa la linea di confine tra la democrazia e le scorciatoie primitive del potere. Stato e Autorità di Pubblica Sicurezza non sono accessori, ma l’ossatura dell’ordine democratico. L’Italia ha scelto un modello fondato sull’autorità civile, distinto dalla logica militare. Prefetti e Questori non sono comandanti, ma garanti dell’equilibrio tra libertà e ordine civile, dissenso e tutela dei beni privati e pubblici.
Il Questore non è un generale, è un’autorità civile che governa la complessità del conflitto, protegge il dissenso quando è pacifico, respinge la violenza che minaccia la convivenza. In questo si realizza quella funzione di direzione civile che Gramsci aveva colto come base sociale della legittimità dello Stato, e che Bettino Craxi avrebbe poi tradotto in chiave riformista e di governo, uno Stato non neutro, ma responsabile, non debole, ma regolatore, capace di tenere insieme sviluppo economico e sociale, autorità e diritti senza cedere né all’arbitrio né all’inerzia.
Il grande sindacalista Giuseppe Di Vittorio ricordava che non esiste libertà sociale senza ordine civile. Oggi questa distinzione si fa confusa, quando la politica oscilla tra retoriche muscolari e ambiguità culturali, scambiando la sicurezza per forza e la forza per governo dell’ordine pubblico.
Ma lo scollamento civile non riguarda solo le istituzioni, lo si è visto nella violenza tra lavoratori metalmeccanici di sigle diverse a Genova, e nello scontro sull’antisemitismo che attraversa il centrosinistra, da cui emerge una debolezza endemica nel fare sintesi sui temi più sensibili. In questa fase la sicurezza pubblica torna a essere, per necessità storica, uno dei principali garanti della tenuta democratica. Non per supplenza autoritaria, ma per funzione, mentre il peso della difesa cresce per effetto delle guerre e del riarmo globale.
Il rischio che la sicurezza venga letta con categorie militari non è più teorico, specie quando esponenti politici di assoluto rilievo hanno reiteratamente manifestato e legittimato detta cultura. Per questo il Ministero dell’Interno e il Dipartimento della Pubblica Sicurezza non devono cedere a sirene militariste, neppure a quelle più insidiose, confidiamo nella cultura istituzionale e civile del Ministro Piantedosi. Ed è per questo che un sindacato come il Siap respinge ogni tentativo di rimilitarizzazione e ha chiesto al Governo, nel confronto del 9 dicembre scorso, di separare nettamente il comparto sicurezza da quello della difesa, così come la re-istituzione della Commissione parlamentare degli Affari Interni, per rimuovere equivoci, sovrapposizioni e commistioni tra missione civile e funzione militare.
Eppure, a smentire questo impianto è l’architettura della sede parlamentare. Oggi le materie afferenti alla sicurezza, agli affari di polizia e del suo personale sono frammentate tra la Commissione Affari Costituzionali e Commissione Difesa, come se l’ordine pubblico fosse un’appendice della funzione militare. È una contraddizione sistemica, con la legge 121/81 si proclama una sicurezza civile, ma la si governa in sedi pensate per la difesa. La richiesta di re-istituire una Commissione parlamentare degli Affari Interni non è un dettaglio procedurale, è una scelta di civiltà politica e istituzionale.
Ed è qui che pesa il grande assente, una politica bipartisan e progressista capace di tradurre i principi in architetture coerenti. Perché senza riforme di sistema, le dichiarazioni restano intenzioni, e gli intenti non si reggono su parole che non trovano struttura. La sicurezza non è un’arma simbolica né un terreno di contesa politica, ma sempre più il cemento della comunità nell’era della società liquida e della globalizzazione. I poliziotti non sono esecutori di un potere oscuro, ma lavoratori dello Stato cui è affidata la funzione più delicata, garantire la continuità della convivenza, esponendo ogni giorno il proprio corpo per proteggere diritti silenziosi, come andare a scuola, lavorare, manifestare, vivere.
Chi artatamente confonde sicurezza e difesa, o peggio chi trasforma il conflitto in caos violento, alimenta derive di piani diversi, ma comunque derive. Affinché, nella società aperta e plurale, la sicurezza resti condizione dello sviluppo economico legale, della libertà d’impresa e del lavoro che ne deriva, e, dunque, fondamento stesso della coesione sociale, non va contaminata dalla pur legittima e nobile cultura militare, che opera in un ambito funzionale radicalmente diverso.
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