Attualità

Pace: il Nobel dietro le sbarre all’attivista Narges Mohammadi

di Eleonora Ciaffoloni -


“Più ci imprigionano e più diventiamo forti” scriveva da dietro le sbarre Narges Mohammadi appena lo scorso anno dopo il caso Masha Amini. La cinquantunenne, attivista e vicepresidente del Centro per la difesa dei Diritti Umani, ha vinto il Premio Nobel per la Pace per “la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua lotta per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti”. Una vita, quella di Narges Mohammadi, votata alla battaglia per le donne e per i cittadini iraniani: uno scontro continuo contro gli obblighi, le divisioni, le ingiustizie e le violenze perpetuate negli anni nei confronti di una grande porzione di popolazione oppressa dal regime nel Paese. Un Nobel vinto anche per “il tremendo costo personale” che Mohammadi ha pagato e sta continuando a pagare reclusa e lontana dal marito e dal figlio costretti all’esilio in Francia. L’attivista negli ultimi vent’anni è entrata e uscita dalle carceri iraniane innumerevoli volte, fino all’ultimo arresto, quello del 2016, per cui ancora si trova dietro le sbarre a Teheran condannata a una pena di 10 anni e 9 mesi per atti contro la sicurezza nazionale e propaganda contro lo Stato.

La cinquantunenne ha continuato negli anni la propria incessante campagna di sensibilizzazione ed è stata arrestata 13 volte, è stata sottoposta a cinque condanne penali e condannata complessivamente a 31 di prigione. Una detenzione accompagnata da pene corporali, tra cui 154 frustate. Condizioni e vessazioni di cui è stata vittima ma anche testimone e per cui ha continuato a denunciare anche da dentro il carcere: pena di morte, isolamento in carcere, tortura. Ne ha parlato per lei e per chi voce non ne ha più, fino a pubblicare lo scorso anno il libro “White Torture” dove racconta i 209 giorni di isolamento nel famosissimo carcere di Evin della capitale iraniana. Mohammadi non si è fermata neanche a seguito dell’inasprimento degli obblighi, delle nuove leggi e delle violenze della polizia morale. Non si è fermata di fronte al caso di Mahsa Amini, che ha risvegliato in tutto il Paese proteste e conseguenti repressioni. Il grido “Donna, vita, libertà” non a caso, è stato gridato nell’anniversario della morte della giovane 22enne dall’interno del carcere di Teheran, dove una rivolta, organizzata dalla stessa Mohammadi, ha visto decine di donne bruciare i propri veli. Quella contro il restrittivo codice di abbigliamento è una lotta tornata alla ribalta dopo il caso di Mahsa Amini, ma che sembra essere di nuovo rimontare proprio negli ultimi giorni. Un’altra giovane iraniana, la 16enne Armita Geravand è finita in coma per “cause ancora da chiarire”. Cause che potremmo sintetizzare in ripetute violenze corporali commesse dalla polizia morale nei confronti della giovane che non avrebbe rispettato l’imposizione del codice di abbigliamento del velo. Nulla è trapelato da parte delle autorità iraniane, ma sono le immagini a parlare per lei. Sono ormai diventati virali sulle piattaforme social i video di pochi secondi in cui si vede Armita Gervavand essere trascinata da altre donne fuori da un vagone metro sulla banchina. Dalle immagini della videosorveglianza – seppur sfocate – è chiaramente visibile il corpo privo di sensi di Amrita, anche se non è chiaro se la stessa indossasse il velo oppure no. La ragazza ora in ospedale è continuamente piantonata da degli agenti della polizia iraniana, con i familiari impossibilitati a farle visita.

Questo nuovo caso ha passato le mura del carcere: secondo Narges Mohammadi il comportamento del governo ha “sollevato le nostre preoccupazioni” ed è “indicativo dei suoi sforzi per impedire che la verità su Armita Geravand venga alla luce”. E così sono un Nobel e un nuovo caso Mahsa Amini a far riaccendere i riflettori su un Iran teatro di violenze.


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