Editoriale

Quei governi carne o pesce

di Tommaso Cerno -


di TOMMASO CERNO

In Spagna una maggioranza esiste ed è enorme. E’ la maggioranza Popolari-Socialisti. Eppure si cercherà in tutti i modi di far prevalere una lettura sull’altra, Feijòo su Sanchez o viceversa. Serve la lezione della paella per capire cosa ha incrinato la stabilità dei Parlamenti dell’Europa, che sembravano la forma di governo più avanzata del pianeta. Dove l’elezione diretta infatti non è prevista, guarda caso nei Paesi che hanno subito le dittature del ’900, dovrebbe venire di conseguenza che l’accordo fra avversari sulla base di un programma a vantaggio della nazione fa parte integrante delle opzioni elettorali. Il governo carne diventa pesce, appunto, come la succulenta specialità valenciana che simboleggia la tavola spagnola.

In fondo lo sappiamo, in Italia abbiamo governato così per molti anni, proprio fra i Popolari democristiani e i Socialisti craxiani. Per mettere insieme la carne e il pesce quando serve abbiamo dovuto tirare sempre in ballo emergenze nazionali, rischi default, governi del Presidente, tutte cose che poi si sono rivelate false, o quanto meno esagerate, come certe sparate di questi giorni sul caldo millenario che avrebbe arso viva l’Italia. Allora dobbiamo dircelo, spiegare a noi stessi che il rispetto per il voto non passa solo attraverso le regole che prevedono governi fra partiti diversi senza specificarne nè la famiglia europea nè le radici storiche, altrimenti questi sarebbero possibili in ogni circostanza e in Spagna avremmo già chiara la situazione, ma devono tenere conto della cultura politica in cui sono immerse.

E questa cultura politica ci dice che sia in Italia sia in Spagna chi vota da una parte non vuole governare con gli altri nemmeno se la somma di questi voti rappresenta da sola più della maggioranza dei cittadini del Paese. Quando succede si finisce per togliere potere a tutti i rappresentanti parlamentari in campo per darlo a un’unica persona, nel nostro ultimo caso Mario Draghi, e per assistere ad una continua lapidazione della cultura partitica, come fosse basata sul ricatto, per poi sciropparsi ore e ore di nenie sul rispetto di quella Costituzione che si basa invece non certo sugli ex capi della Bce ma proprio sugli equilibri parlamentari fra i partiti.

Una volta che ci siamo detti questo, facciamo la cosa più naturale che ne consegue: anziché lanciarci in surreali analisi sulla derivata italiana del voto di Madrid (anzi Madrid e Barcellona, visto che gli autonomisti da quelle parti sono una cosa seria) prendiamo esempio dai più lucidi del momento rispetto a questa analisi lapalissiana, i greci. Lì il leader della destra ha vinto ma non ha vinto e siccome sa quello che abbiamo scritto nelle righe sopra, e cioè che sulla carta può fare il governo con chi vuole ma nella pratica no, si torna a votare.

E allora in Spagna, se la democrazia avesse ancora un valore, o si trova un accordo fra Sanchez e Feijòo, oppure si torna dagli spagnoli e gli si dice: cari cittadini, siccome dopo Franco abbiamo scelto un sistema parlamentare basato sul voto popolare, ma nel frattempo c’è un tale odio tra destra e sinistra che le alleanze si possono fare solo prima delle elezioni, torniamo a votare anche noi.


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