Quel quotidiano, quella politica e i destini paralleli
Parole e potere che corrono senza incontrarsi, fino a scavarsi la fossa a vicenda.
Quel quotidiano nasce come una scossa. Vuole cambiare l’Italia, parlare di modernità, libertà, Europa. Non si mette al servizio dei partiti, vuole essere la voce dei lettori.
La politica, già stanca e compromessa, si lascia trascinare. Quel quotidiano detta l’agenda, i politici seguono. Per un attimo sembra funzionare: il giornale diventa quasi un partito, la politica un’eco. Una coppia che viaggia insieme, ma senza biglietto di ritorno.
Il meccanismo che si inceppa
Poi il meccanismo si inceppa. La politica perde radici, smette di ascoltare la gente, si aggrappa alle pagine. Non parla più al popolo, ma al giornale. E il giornale, a sua volta, si nutre di quella politica sterile.
Due destini paralleli: corrono vicini, non si incrociano mai, e intanto si consumano. Un viaggio che assomiglia più a una gita verso il nulla.
Il prezzo si vede ogni giorno: lavoro che manca, salari che non bastano, periferie dimenticate. Restano battaglie di costume, moralismi, identità di facciata. La cultura woke diventa l’alibi perfetto: un linguaggio corretto che promette di cambiare il mondo ma finisce per coprire i problemi concreti.
La crisi di identità
Oggi quel quotidiano non è in crisi di vendite, ma di identità. E quella politica lo è altrettanto. La domanda resta sospesa: chi affossa chi? Forse il giornale si chiude in un salotto autoreferenziale, forse la politica smette di guardare al popolo.
Forse, più semplicemente, viaggiano come destini paralleli: binari che non si incontrano mai, ma che alla fine si scavano la fossa a vicenda.
Se quel quotidiano passa di mano, non è un dramma. È più un cambio di vagone nello stesso treno. Non si tratta di scegliere un nuovo padrone, ma di tornare a guardare la realtà.
Quel quotidiano: forse potrà decidere se viaggiare su un binario morto o deviare verso il mondo reale.
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