Riccardo III, un Eden malefico che non prende forma
In Riccardo III, tragedia di intrighi e di sangue, Shakespeare mette in scena l’ascesa di un uomo disposto a eliminare chiunque ostacoli il suo cammino verso il trono. Riccardo, duca di Gloucester, manipola, tradisce e uccide fratelli, alleati e innocenti, costruendo il proprio potere su una catena di delitti che corrode progressivamente il regno e se stesso. È una storia di seduzione politica e distruzione sistematica, in cui il male avanza non per forza bruta, ma per intelligenza e parola.
È su questa materia che si innesta il Riccardo III diretto da Antonio Latella, in scena fino a martedì 23 dicembre al Teatro Carignano di Torino, con Vinicio Marchioni nel ruolo del protagonista, per poi proseguire a gennaio la tournée in Italia. Uno spettacolo che nasce da intenzioni dichiaratamente ambiziose e concettualmente articolate, ma che nella resa scenica fatica a trasformare il pensiero in vera esperienza teatrale.
Latella affronta Shakespeare scegliendo di spostare il baricentro della tragedia dalla deformità fisica alla seduzione della parola, intesa come forza primaria del male. Riccardo non è più gobbo né zoppo: il male, nelle note di regia, “è vita, è natura, è disarmonia”. Un’idea che mira a sottrarre al personaggio l’alibi della mostruosità, interrogandosi su quanto sia ancora accettabile, nel XXI secolo, giustificare il male attraverso un segno fisico evidente. Il riferimento all’angelo più bello che tradisce il Paradiso e al giardino dell’Eden come luogo di bellezza ingannatrice costruisce un impianto teorico coerente e stimolante.
Il problema è che questa ricchezza concettuale resta in larga parte sulla carta. Il Riccardo interpretato da Vinicio Marchioni, vestito di bianco e fisicamente integro, risulta monocorde, poco modulato sul piano vocale ed emotivo. La parola, che dovrebbe essere seduzione pura, forza capace di incantare e ingannare, viene spesso urlata, perdendo proprio quella qualità ambigua e insinuante che la regia dichiara di voler indagare. L’urlo non costruisce tensione, ma livella: i momenti cruciali della tragedia non emergono, perché tutto procede sullo stesso piano espressivo. Ne risulta un Riccardo privo di seduzione e di progressione drammatica, dove la violenza è costante ma non crescente, e dunque non incide. Più che inquietare o interrogare, lo spettacolo finisce per stancare, lasciando lo spettatore con l’impressione di un’idea chiara ma irrisolta nella sua realizzazione scenica.
A questa sensazione di appiattimento contribuisce anche una generale mancanza di ritmo. L’assenza di una musica evocativa e di un disegno luci capace di accompagnare i nodi drammaturgici rende i passaggi decisivi poco riconoscibili. Il male è costante, ma non cresce, non muta, non sorprende.
Le figure maschili, nel loro insieme, finiscono per funzionare come cassa di risonanza della cattiveria di Riccardo, senza costituire un reale contrappeso drammatico. Anche il Custode, personaggio introdotto dalla regia e interpretato da Flavio Capuzzo Dolcetta, pensato come garante della bellezza del giardino edenico e figura ambigua tra servitore del male e difensore del luogo, resta più interessante sul piano simbolico che su quello scenico. La sua presenza, così come quella degli altri personaggi maschili, non riesce a spezzare l’orizzontalità della messinscena, risultando complessivamente uniforme, poco incisiva, priva di reali scarti emotivi.
Di segno opposto è invece il lavoro sulle figure femminili, che rappresentano uno degli aspetti più convincenti dello spettacolo. La Regina Margherita (Candida Nieri) , Lady Anna (Giulia Mazzarino), la Duchessa di York (Anna Coppola) e la Regina Elisabetta (Silvia Ajelli) emergono come personaggi più articolati, ciascuno con una propria voce e una propria funzione drammaturgica. Sono loro a mettere in evidenza e a svelare le malefatte di Riccardo, a nominarle, a ricordarle, a farne percepire il peso morale. Il contrasto tra la loro presenza e la piattezza espressiva del protagonista rende evidente come il conflitto con il femminile — dichiarato centrale nelle intenzioni registiche — trovi compimento soprattutto grazie alle interpreti.
La scenografia è dominata da un grande albero centrale, aperto e attraversabile, che Riccardo utilizza come una sorta di quinta, entrando e uscendo come se il potere stesso fosse un organismo scavato dall’interno. L’albero, simbolicamente forte, sembra un corpo privato della vita, forse prosciugato proprio dal male che Riccardo incarna. È un’immagine suggestiva, ma anche qui più dichiarata che realmente integrata nello sviluppo drammatico: resta un segno potente, non sempre tradotto in azione teatrale. Nelle intenzioni di Latella, la scenografia dovrebbe evocare un giardino dell’Eden, luogo di una bellezza accecante e ingannatrice, a indicare come “l’angelo più puro” possa essere colui che compie il male più grande. Tuttavia l’albero e l’estetica complessiva, finiscono per restituire un’impressione artificiale, quasi da vivaio, che non evolve insieme alla tragedia e non genera quella vertigine morale promessa dall’impianto teorico.
In definitiva, il Riccardo III di Latella è uno spettacolo che pensa molto e realizza poco. Le intenzioni sono colte, coerenti e profondamente contemporanee, ma il teatro, che vive di ritmo, di contrasti e di incarnazione, resta qui in secondo piano. Le figure femminili aprono spiragli di senso e di verità; tutto il resto rimane sospeso in una violenza costante, ma priva di progressione, lasciando lo spettatore davanti a un’idea di spettacolo più che a un’esperienza teatrale compiuta.
Giuliana Prestipino ilTorinese.it
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