Scultura, Dionisio Cimarelli: “Una continua apertura verso l’inaspettato”
Entrare nel mondo dell’artista Dionisio Cimarelli è come vivere il suo entusiasmo professionale a piene mani, sentirne vibrare le emozioni. Un mix di tradizioni, materiali e Paesi. Tra le sue opere più note la statua di Matteo Ricci esposta all’Expo di Shanghai nel 2010, il San Giovanni Battista realizzato con marmo di Carrara e i Putti di Porcellana esposti alla Biennale di Venezia nel 2011.
Come e quando si decide di diventare scultori?
“Non credo si tratti di una decisione nel senso stretto del termine. Piuttosto, è un processo che affiora lentamente, come una vocazione interiore che si manifesta con chiarezza solo nel tempo. Nel mio caso l’interesse per la materia e per l’arte visiva si è rivelato fin dall’infanzia. A quattordici anni ho intrapreso gli studi all’Istituto d’Arte di Ancona, dove ho iniziato a confrontarmi in modo sistematico con la scultura. Da allora questo linguaggio non mi ha più abbandonato. Più che una scelta razionale è stata una risposta naturale a un’esigenza profonda di espressione”.
Com’è nata l’idea di fondere la tradizione italiana con quella orientale?
“L’incontro tra le due tradizioni è stato il risultato di un’esperienza diretta e prolungata. Ho vissuto e lavorato per quasi dieci anni in Cina, oltre che in altri Paesi asiatici, entrando in contatto con contesti culturali profondamente diversi da quello occidentale. La tradizione italiana, con il suo rigore formale e la centralità della figura, è parte integrante della mia formazione e identità. Tuttavia, l’estetica orientale, caratterizzata da essenzialità e dimensione spirituale, ha offerto nuovi spunti di riflessione e di ricerca. La sintesi tra questi due mondi non è stata programmata, ma si è sviluppata in modo naturale, come esito di un dialogo costante tra sensibilità diverse, tanto umane quanto artistiche”.
Quali materiali predilige?
“Utilizzo diversi materiali, marmo, legno, bronzo, porcellana, ceramica, gesso, ciascuno con un proprio lessico formale e una propria vocazione espressiva. Non vi è una preferenza assoluta, quanto una coerenza tra l’idea e il materiale più adatto a tradurla. Il marmo, per esempio, consente una sintesi di eleganza, leggerezza e precisione che sento affine al mio modo di lavorare. La porcellana, invece, pur nella sua apparente fragilità, offre una forza comunicativa sottile e una qualità estetica che mi ha sorpreso”.
Un lavoro a cui è legato di più?
“Ogni opera coincide con un tempo specifico della mia vita e ne riflette le risonanze interiori. Ciascuna ha una propria storia, un contesto, una necessità. Tuttavia, sono particolarmente legato alla scultura dedicata a Matteo Ricci, realizzata in Cina. È un lavoro complesso, che ha unito scultura figurativa, calligrafia cinese e doratura a foglia oro. Ma ciò che più conta è il valore simbolico dell’opera: un omaggio a un uomo che ha incarnato il dialogo profondo tra culture lontane. In un’epoca in cui la comprensione reciproca è sempre più fragile, la figura di Ricci e ciò che rappresenta risultano oggi più che mai attuali”.
Cosa si prova a far emergere un’immagine da un materiale grezzo?
“È un processo che richiede ascolto, concentrazione e misura. La materia non è mai passiva: oppone resistenza, impone delle condizioni, costringe al confronto. L’atto dello scolpire si configura come un dialogo costante tra l’intenzione e il limite, tra il gesto e la natura intrinseca del materiale. È una tensione silenziosa, in cui occorre dominare la forma senza tradire le qualità specifiche della sostanza. Quando la scultura inizia a emergere, si ha talvolta la percezione che quella forma fosse già lì, celata nel blocco, in attesa solo di essere rivelata”.
Come pensa di continuare ed evolvere la sua arte nel tempo?
“Credo in un’evoluzione costante, fondata sulla capacità di mettersi in discussione e di rimanere ricettivi rispetto al contesto in cui si opera. L’ambiente, la cultura del luogo, le circostanze storiche e sociali influenzano profondamente il mio lavoro. Attualmente sto approfondendo il rapporto tra arte e tecnologia, esplorando strumenti che consentano di integrare le tecniche contemporanee senza rinunciare alla sostanza della ricerca formale. La tecnologia, tuttavia, resta per me un mezzo e non un fine: ciò che conta è che il linguaggio resti coerente con l’intenzione espressiva. In ultima analisi, l’evoluzione non è soltanto una questione tecnica, ma un processo interiore, che richiede lucidità, ascolto e una continua apertura verso l’inaspettato”.
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