Attualità

Se l’ambiente presenta il conto. E ora uno Stato eco-sociale

di Redazione -


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO
Gli eventi drammatici che hanno colpito l’Emilia e la Romagna stanno dimostrando in maniera inconfutabile come il riscaldamento globale antropico possa avere conseguenze devastanti per la nostra esistenza quotidiana. E rappresentano una smentita plateale nei confronti di chi insiste a negare la crisi ambientale e si ostina a chiudere gli occhi davanti alle evidenze scientifiche e alla necessità di affrontare una transizione energetica in grado di limitare le emissioni di gas a effetto serra. L’ambiente, purtroppo, sta presentando il conto di scelte che hanno alterato tutti gli equilibri del nostro pianeta, quelli climatici come quelli chimici, quelli geomorfologici come quelli biologici. Questa situazione pone governi e cittadini tutti davanti a una sfida epocale, che costringe a guardare oltre l’immediato presente e a promuovere, oltre che a praticare, politiche finalizzate alla sostenibilità e al rispetto dell’ambiente. Occorre cioè prendere atto che le economie devono tenere conto dei limiti ambientali e che è proprio un modello di sviluppo che riduce ogni fattore produttivo, anche la natura, a merce, a essere responsabile di quelle irrealistiche aspettative di crescita indefinita che sono all’origine della situazione in cui ci troviamo.
È proprio nel contesto della crisi ambientale che lo Stato sociale può tornare a giocare un ruolo cruciale. Il principio che è alla base del welfare è la ‘de-mercificazione’, ovvero la protezione del lavoro dalle logiche di mercato attraverso una politica sociale orientata in funzione di un valore eticamente superiore, il benessere umano. È stato grazie agli strumenti di protezione sociale che si è potuta affermare l’idea che il lavoro non è, o non è soltanto, una merce. Questo principio guida si è incarnato in tutto il mondo secondo logiche istituzionali distinte. La tipologia classica distingue l’approccio ‘corporativista’ (come in Germania) da quello ‘socialdemocratico’ (come in Svezia) e da quello ‘liberale’ (come nel Stati Uniti), ciascuno caratterizzato da uno scopo, un metodo di finanziamento e una governance particolari. Non basta però demercificare il lavoro: è necessario fare lo stesso anche con l’ambiente, e cominciare a prendere le distanze da un modello economico che, su scala progressivamente sempre più globale, ha subordinato alla logica del profitto ogni altra considerazione.
È qui che entra in gioco il concetto di “Stato eco-sociale”, il cui principio-guida è alternativo al dogma che ha dominato le scelte politiche degli ultimi decenni e che non è mai stato seriamente messo in discussione, ovvero la fede immotivata nella capacità del mercato di autocorreggere i propri errori. Troppo spesso ha prevalso la convinzione che porre dei limiti – alle emissioni, allo sfruttamento di una risorsa e così via – rappresenti un freno allo sviluppo. In realtà, si può sostenere che i limiti possono anche costituire un’opportunità. Per esempio, una maggiore efficienza nell’uso delle risorse accelera la ricerca in direzione di nuove tecnologie e di una razionalizzazione dei processi produttivi. Naturalmente, una visione stato-centrica non è sufficiente. È ovvio che la crisi climatica è una sfida globale che richiede una governance globale, un sistema condiviso di decisioni tra Paesi e regioni geografiche differenti tra loro. Ma questo non significa che la dimensione locale sia meno importante di quella globale. In particolare, quella dello Stato e delle sue articolazioni territoriali, poiché uno Stato eco-sociale potrebbe trasformare la minaccia ecologica in rischio sociale attraverso garanzie e assicurazioni pubbliche, così da rendere le conseguenze sociali delle crisi ambientali del XXI secolo il più eque possibile e quindi, in linea di principio, mitigarne la naturale violenza.
Se è vero, come ha affermato il presidente dell’Emilia-Romagna, che un’alluvione di queste proporzioni va paragonata a un terremoto (e cioè a un evento imprevedibile), e quindi a una circostanza la cui portata che non è facilmente deducibile dalla somma di eventi precedenti, è anche vero, però, che le sue conseguenze possono essere significativamente mitigate attraverso un sano principio di precauzione. Si tratta, cioè, di fare in modo che la valutazione dei servizi ecosistemici implichi tre distinti criteri di valutazione: economica, sociale e, soprattutto, ecologica, in modo da affermare che ci sono cose il cui valore non è quantificabile e non può quindi essere equiparato a una semplice merce.
La prima di queste è il territorio che, come è stato detto, “non resuscita”, nel senso che il suolo, una volta cementificato, non è più compatibile con il verificarsi di eventi eccezionali, tanto per intensità quanto per frequenza. Ma occuparsi del suolo non significa porre ai margini il problema del riscaldamento globale, dovuto, come ormai ben si sa, alla combustione su larga scala di carbone, petrolio e metano, i cosiddetti combustibili fossili. Una transizione energetica che limiti le emissioni di gas a effetto serra è ormai indifferibile, e solo uno Stato eco-sociale può essere in grado di affrontare gli investimenti e di introdurre le misure di protezione sociale che si riveleranno necessarie in probabili circostanze analoghe. La crisi climatica, che può avere un effetto moltiplicatore sulle disuguaglianze già in essere, dev’essere contrastata dall’idea di sostenibilità, non solo in campo ambientale ma anche in campo sociale, affinché il peso della crisi climatica innescata nell’Antropocene non ricada in modo sproporzionato sulle spalle di alcuni ma rientri, invece, in un quadro definito da principi di equità e solidarietà.

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