Attualità

Il “politicamente corretto” e la libertà di parlare senza censura

LA FILIPPICA - C’è una notizia: la libertà di parola non è libertà di gradimento.

di Alberto Filippi -


L’epoca del politicamente corretto. Avvertenza per il lettore: l’articolo che segue potrebbe contenere parole. Parole vere, intere, magari pure sfacciate. Se la parola “Negroni” in un bar può rischiare di far accendere la miccia della rissa perché avvertita come razzista vuol dire che siamo alla frutta. Eppure è accaduto! A Pordenone. Alcune parole potrebbero evocare concetti oggi giudicati “problematici”.

Se siete deboli di tastiera o allergici al senso dell’umorismo, è meglio chiudere qui. Viviamo in tempi in cui il politicamente corretto è diventato una nuova religione laica, con le sue preghiere, le sue scomuniche e i suoi piccoli tribunali quotidiani. La lingua non è più un ponte, ma un campo minato. Non dici più “cieco”, dici “non vedente”. Non “vecchio”, ma “diversamente giovane”. Non “ladro”, ma “persona in conflitto con il codice penale in modo espressivo”. Siamo arrivati al punto che per dire che uno ha fame bisogna prima fare un disclaimer etico: “Premesso che ogni organismo vivente ha diritto alla nutrizione…” E poi forse, forse, puoi dire che vuoi una pizza. Il paradosso è che non ci si può più offendere, ma si vive offesi.

Ogni parola è una miccia, ogni frase una denuncia potenziale. Se dici che una commedia di oltre trent’anni fa ancora ridere, sei sessista. Se ti scappa un aggettivo robusto su un politico, sei istigatore d’odio. Se dici che hai lavorato duro, ti accusano di sfruttare la retorica capitalista. Nel dubbio, si preferisce il silenzio. O, peggio, la parola neutra. Il participio passivo. L’aggettivo sterilizzato. Il risultato? Un mondo che parla tanto per non dire nulla. Una lingua che non morde, ma non tocca. E intanto la realtà – che non è mai stata educata – continua a parlare chiaro: grida, insulta, ama, scivola. Ma fuori microfono. Il bello è che il politicamente corretto non è più neppure una questione di rispetto, ma di etichetta.

Non si tratta più di essere civili: si tratta di essere visibilmente civili. È l’apparenza che conta. Non il rispetto, ma il protocollo. Non “non essere razzista”, ma “sembrare antirazzista”. Non amare le donne, ma dimostrarlo mettendo asterischi in ogni parola che contiene una vocale discutibile. Una volta le buone maniere erano quelle che non si notavano. Ora invece sono gridate a colpi di post, regolamenti aziendali, linee guida e clausole di sensibilità. E chi le viola – anche solo per sbaglio – viene giustiziato online, depennato, e talvolta licenziato in tempo reale. C’è una notizia: la libertà di parola non è libertà di gradimento. Se una battuta non piace, puoi dirlo. Ma non puoi chiederne la cancellazione. Se una frase ti urta, puoi argomentare. Non pretendere le scuse pubbliche con effetto retroattivo.

Stiamo crescendo generazioni di persone che credono che la realtà sia un’offesa da moderare. Come se la storia, la cronaca, la biologia, il dolore e il desiderio fossero funzioni da gestire con un algoritmo. Il politicamente corretto è nato con buone intenzioni. Certo. Ma poi, come sempre accade con le buone intenzioni, si è perso per strada. Ha messo le scarpe nuove e si è guardato allo specchio. Ora è un goffo cerimoniale verbale, che serve a chi già ha voce per parlare più forte, e a chi non l’ha mai avuta per rimanere zitto.

E la satira? Quella sì che è finita sotto processo. Ogni vignetta, ogni sketch, ogni iperbole viene scandagliata con lo spirito con cui Savonarola bruciava i libri a Firenze. Il comico oggi non può più dire che la realtà è ridicola. Deve dire che la realtà è “molteplice, sensibile, polimorfa e meritevole di validazione”. E noi intanto ridiamo meno. E viviamo peggio. Nel frattempo, però, le parole davvero offensive – quelle della burocrazia, del marketing, del potere – passano lisce. Quelle che ti cacciano da un lavoro “per esigenze di ristrutturazione interna”, quelle che chiudono un ospedale “per ottimizzazione territoriale”, quelle che vendono armi “per scopi difensivi”. Quelle sì, nessuno le tocca. Troppo eleganti. Troppo “in linea con il tono”. E allora sì, questo articolo contiene parole. E anche un desiderio: che torniamo a pesare le intenzioni più delle formule, i fatti più dei termini, la sostanza più dell’apparenza. Magari sbagliando. Ma parlando. E spiegando che “Negroni” è solo il nome di un drink, non un’offesa di distrazione di massa (come qualcuno ha percepito a Pordenone) dai problemi veri. In molti a sinistra non l’hanno ancora capito.


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