L'identità: Storie, volti e voci al femminile Poltrone Rosse



Attualità

Reshoring peggio dei dazi, un guaio se vanno via le multinazionali americane

Il Report Svimez sul "peso" delle imprese Usa in Italia: il Sud rischia grosso, ecco perché

di Giovanni Vasso -

Operai dello stabilimento fuori del capannone, durante la commemorazione della morte di Guido Rossa il sindacalista ucciso per mano delle Brigate Rosse, nello stabilimento ex Ilva di Cornigliano. Genova, 24 Gennaio 2020. ANSA/LUCA ZENNARO


Sarebbe un bel problema, per l’Italia, se dovessero andar via gli americani e le loro multinazionali. Tutti i nodi stanno venendo al pettine. I nodi intricati di decenni di scelte economiche, e pure politiche, che hanno privilegiato il terziario, nell’illusione che il turismo fosse “il nuovo petrolio”. Comportando una certa de-industrializzazione del Paese. Specialmente al Sud. E proprio il Sud rischierebbe di pagare il prezzo più salato di un eventuale disimpegno delle multinazionali, segnatamente americane, se la politica di dazi di Trump dovesse sortire, completamente, gli effetti che ci si auspica abbia dalle parti della Casa Bianca. Secondo i dati riportati da Svimez, che ha presentato ieri un focus analitico sulla presenza delle grandi imprese nelle regioni italiane, i rischi sono impossibili da non tenere in considerazione. Già, perché se è vero che il nostro resta pur sempre un Paese di piccole e microimprese, in cui il peso delle grandi aziende è pari solo all’1,2 per cento del totale delle aziende, lo è altrettanto il fatto che, da sole, generano il 21% del fatturato e danno lavoro al 9,5% degli addetti, intestandosi la produzione del 30% dell’export nazionale in materia di manifatturiero. Al Sud, se possibile, il peso delle multinazionali è ancora più imponente. Complessivamente, l’export dall’Italia delle multinazionali americane vale 43 miliardi di euro. In pratica, il quinto del valore complessivo del totale. Le Regioni del Nord sono in prima fila. La sola Lombardia, con oltre 12,7 miliardi di export, “vale” più di tutte le altre regioni in questa classifica che vede tutto il Sud non raggiungere nemmeno i tre miliardi. Ciò, però, non vuol dire che nel Mezzogiorno il peso specifico della presenza delle multinazionali americane sia minore. Tutt’altro. Qui, infatti, le aziende rappresentano appena lo 0,7% del totale ma generano il 31% del fatturato. Un trend superiore di quasi sette punti percentuali rispetto alla media nazionale (24,6%). E, per di più, lo fanno in settori strategici come l’automotive (Abruzzo, Molise, Basilicata), estrattivo (di nuovo la Basilicata), e chimico e della raffinazione (leggi Sicilia).

C’è, poi, un’altra questione. Che non è da sottovalutare perché racconta la china dell’industria italiana. La classifica, riportata da Svimez, della “nazionalità” delle imprese controllate. Gli Stati Uniti, in Italia, contano su poco più di 2.600 imprese che danno lavoro direttamente a circa 351mila persone. Meglio degli americani, solo la Germania a cui, nel corso degli ultimi decenni, l’Italia s’è (fin troppo) saldamente legata. I tedeschi controllano qui 2.860 aziende, danno lavoro a meno persone (poco più di 222mila persone). Sul fronte dell’occupazione, invece, solo i francesi possono mettersi a paragone con gli americani. Nelle mani dei cugini transalpini, difatti, ci sono 2.453 aziende che occupano poco meno di 322mila addetti. In termini di fatturato, poi, la Francia conquista il primato con il 19,4%. Scavalcando proprio gli americani che restano fermi al 17,9%, distanziando in maniera abissale a conduzione tedesca (13%). Se, però, si prendono in considerazione i numeri legati ai settori ricerca e sviluppo, si scopre che le aziende collegate a entità economiche olandesi fanno meglio di tutte con il 26,6% del totale. Le multinazionali americane, però, non hanno granché da invidiare dal momento che il peso delle loro industrie sull’R&S è del 22%. Praticamente lontanissime Francia (7,8%) e Germania (8,3%) che con ogni evidenza preferiscono allocare altrove i progetti più innovativi. Questi numeri fanno riflettere. Gli analisti Svimez ritengono, difatti, che (ancora) più dei dazi sia da temere la strategia trumpista di reshoring. Una chiamata che, in realtà, non s’è inventato Donald Trump ma che, sotto altre forme, era già partita dall’amministrazione Biden con il suo mai abbastanza discusso Inflaction Reduction Act. Se vanno via gli americani, almeno sul breve e medio periodo, si rischiano contraccolpi pesanti. Ma l’Ue, a quanto pare, non sembra riuscire a toccare palla come ha spiegato Stefano Prezioso, vicedirettore Svimez e curatore del report: “È evidente che qualora i dazi imposti dal governo americano durino nel tempo, le multinazionali statunitensi operanti nel nostro paese potrebbero essere tentate di riportare la produzione a casa, il cosiddetto reshoring. La perdita di questa produzione potrebbe dar luogo a un danno, per l’economia italiana, ampio, probabilmente maggiore di quello che deriva dai soli dazi. La risposta a questo pericolo da parte dell’Europa finora è debole, concentrandosi esclusivamente sulle problematiche dei dazi”.


Torna alle notizie in home