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Criminali virali: il nuovo intrattenimento low cost

Il passato che spaventa fuori dallo schermo ma diverte dentro il feed.

di Andrea Fiore -


Negli ultimi anni sui social compaiono sempre più spesso figure come Giampaolo Manca, il “Doge” della mafia del BrentaAntonio Mancini della Banda della Magliana e il rapinatore Francesco Ghelardini. Parlano davanti a una telecamera, raccontano il loro passato, rispondono alle domande come se fossero ospiti fissi di un programma. E migliaia di persone li seguono, li commentano, li ascoltano.

Succede oggi, in un tempo in cui tutto passa attraverso un video breve e in cui ogni storia deve colpire subito. Succede soprattutto online, dove il passato può essere riscrittosemplificato, trasformato in un racconto che scorre veloce. È un luogo dove la distanza tra chi parla e chi ascolta è enorme, e dove anche le vicende più dure diventano contenuto.

Criminali virali: perché queste storie funzionano così bene

Il motivo sembra chiaro: queste vite attirano. Hanno colpi di scena, scelte estreme, momenti che nella quotidianità non esistono. La routine di chi guarda — lavoro, problemi, impegni — appare piccola al confronto. Così il racconto di una rapina o di una fuga diventa più interessante di una giornata normale. Gli algoritmi fanno il resto: se un video divide, se fa discutere, viene mostrato a più persone. E pochi temi dividono quanto la criminalità raccontata da chi l’ha vissuta.

Ma se ci spostiamo fuori dallo schermo, la prospettiva cambia. Nella vita reale chi ha fatto del male non viene trattato come un personaggio. Non viene applaudito, non viene celebrato. Nella vita reale ci sono le vittime, le famiglie, le ferite che non si chiudono. Tutto questo online scompare, come se non fosse mai esistito. Rimane solo la voce di chi racconta, non quella di chi ha subito.

C’è poi un’altra prospettiva ancora: quella di chi cerca autenticità. In un mondo pieno di filtri e vite perfette, chi parla di carcere, paura, errori sembra più vero. Anche se quella verità è parziale, anche se manca tutto ciò che non conviene dire. Bastano un tono calmo e un ricordo ben costruito per far sembrare tutto più sincero di quanto sia.

La prospettiva più scomoda: la nostra

E infine c’è la prospettiva più scomoda: la nostra. Siamo noi che guardiamo, che clicchiamo, che trasformiamo queste storie in un genere narrativo. Siamo noi che confondiamo la realtà con lo spettacolo. Siamo noi che dimentichiamo cosa c’è stato davvero dietro quei nomi.

A questo punto le domande si moltiplicano: che cosa ci spinge davvero a seguire queste persone? Che cosa cerchiamo quando ascoltiamo le loro storie? E che cosa rischiamo di perdere quando lasciamo che la memoria diventi intrattenimento?

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