Economia

Cosa c’è dietro lo scontro sul Mes: Giorgetti, Meloni e i titoli di Stato

di Giovanni Vasso -


Come sempre accade, la questione è più complessa rispetto alla semplificazione che, per forza di cose, ne fa la politica. Sul Mes, per esempio, non è tutto bianco o nero, favorevoli e contrari, astenuti e volenterosi. Non è solo uno scontro tra “sovranisti” (o ciò che ne rimane) ed “europeisti” (che, fatti due conti, non avrebbero alcun peso specifico, in Parlamento, per sobbarcarsi da soli l’onere di approvare il Mes). La vicenda si annida nei mercati e trova ragioni più profonde nelle fibrillazioni, nei rischi di speculazione che potrebbero arrivare. L’Italia è un Paese indebitatissimo e il Mes rappresenta una garanzia sulle sue esposizioni, quindi anche o forse soprattutto, sui titoli che emette e piazza sui mercati. Non è un caso, dunque, che il Mef abbia fatto uscire una relazione tutto sommata “amica” del Mes proprio nelle settimane in cui il Tesoro sta rilasciando bond e obbligazioni.

Il ragionamento italiano si adatterebbe, perfettamente, anche all’Unione europea. Se l’Italia aderisce al Mes, rafforza la solidità dei titoli continentali. In pratica, una sponda che eviterebbe il pericolo di un declassamento dei bond Ue. Secondo i bene informati, dunque, le pressioni che arrivano a Roma da Bruxelles, e da Francoforte sede della Bce, sono finalizzate a blindare la credibilità sui mercati. Tanto dell’Italia quanto della stessa Unione europea. Il problema è che tutto ciò non è facile da spiegare politicamente. Non lo è, a maggior ragione, se la maggioranza è stata eletta da una base, solidissima, di cittadini stufi delle politiche di austerity che arrivano o che negli anni sono state ispirate dalle istituzioni comunitarie. C’è da dire, poi, che il rischio, per l’Italia, di trovarsi costretta ad “accettare” il Salva-Stati, dati i livelli di indebitamento del Paese, sono altissimi. E che la prova che il Mes ha dato di sé in Grecia, negli anni scorsi, ha lasciato un’impronta profondissima. Il caso ellenico ha scosso le coscienze e ha rafforzato le critiche rispetto al funzionamento dei meccanismi e alle scelte delle istituzioni Ue. Gli anni della troika hanno lasciato un’impressione profonda, anche (o forse soprattutto) in Italia. In fondo, la Grecia è nostra dirimpettaia. Vedere le immagini di orchestrali suonare in piazza, come l’ultimo violinista sulla tolda del Titanic, ha sortito effetti forti. Le rassicurazioni che arrivano da Bruxelles, le parole di Pierre Gramigna, nuovo presidente del Mes, che ogni due per tre ribadisce come la riforma abbia profondamente cambiato questo strumento e che non ci saranno più casi come quello di Atene, non attecchiscono tra l’elettorato di centrodestra.

Il tema, dunque, è tanto economico quanto politico. Se Giorgia Meloni non ha avuto nessun problema a far digerire alla sua base la sostanziale prosecuzione dell’agenda Draghi, cui pure s’era posta in parlamento quale unica opposizione al suo governo, ne avrebbe molti di più per far passare il Mes. Lei stessa promise “col sangue” che lei non avrebbe mai spinto l’Italia ad accedere al meccanismo. La ratifica è un’altra cosa. La premier lo sa ma sa anche che spiegarlo ai suo elettori sarà difficilissimo. L’apertura del Mef ha rappresentato una sortita, quasi un’avanguardia esplorativa. Salvini, che è sempre il vicepremier oltre a essere il leader della Lega, s’è premurato di rassicurare i suoi che a decidere sarà il Parlamento e che il Carroccio di certo non è favorevole alla ratifica. Giorgetti, col quale “c’è piena armonia”, s’è trovato con un documento tecnico in mano. I burocrati fanno il loro mestiere, così come i politici. Il tema ha diviso, chiaramente, l’opposizione. Il Pd di Schlein, insieme ad Azione, radicali e altri gruppi centristi, ha già presentato in Parlamento una bozza di ratifica. Il M5s di Conte, invece, rivendica posizioni ultrascettiche e potrebbe utilizzare questa bagarre per ritrovare consensi.


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