Attualità

I viceré d’Italia

di Redazione -


Se calasse oggi un marziano a Roma, sarebbe indotto a credere che il tema delle autonomie regionali sia recente e strettamente elettorale, che divide destra e sinistra, un argomento che soffia sull’eterno scontro tra il Nord e il Sud del Paese. Quel marziano si sbaglierebbe di grosso. Perché il tema dell’autonomia differenziata risale a (molto) prima del 2017, quando le Regioni (a guida leghista) Veneto e Lombardia, forti di un referendum popolare, intavolarono un dibattito col governo al quale si unì, praticamente subito, la rossa Emilia Romagna e, qualche mese dopo, annunciò di volerci entrare anche la Campania guidata da Vincenzo De Luca. Ma a scartabellare le cronache di qualche anno fa si scopre pure che uno dei più acerrimi avversari dell’autonomia, il governatore pugliese Michele Emiliano, ne era inizialmente addirittura entusiasta. L’ex magistrato aveva spiegato a Radio Anch’io, nell’ottobre del 2017, di voler richiedere “la stessa maggiore autonomia di Veneto e Lombardia” perché si diceva “convinto che la gestione locale sia più efficiente di quella nazionale”. Una posizione ribadita nell’agosto del ’18 quando, intervistato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, annunciò la volontà di “chiedere tutte e 23 le competenze previste dall’articolo 117”.
Il tema, dunque, non è quello relativo all’autonomia in sé ma al “come” attuare questo disegno istituzionale. La riforma, dopo un processo che è andato avanti a singhiozzo dal 2018 a oggi, darebbe la possibilità alle Regioni di legiferare, cioé intervenire direttamente e normare senza dover attendere che lo faccia Roma, su materie su cui oggi c’è competenza condivisa oppure esclusiva dello Stato. Dalla scuola fino ai trasporti, dal Fisco (con il sogno di trattenere le tasse dei cittadini residenti) ai rapporti con l’estero e, infine, il tema forse più importante di tutti: quello della sanità. Sicuramente si tratterebbe di un’applicazione piena del cosiddetto principio di sussidiarietà, in questo caso verticale, che sgravando lo Stato di obblighi darebbe agli enti locali maggiori poteri e più ampie competenze.
Non è questione di farcela da soli, dunque, ma di organizzazione e di trasferimenti di risorse. Perché il rischio è che si strappino, del tutto, gli ultimi brandelli di unità nazionale se il divario tra Regioni crescesse. Il criterio della spesa storica è nell’occhio del ciclone. Ci sono dei limiti entro i quali non bisogna andare e che sono rappresentati dai cosiddetti Lep, i livelli essenziali di prestazione, che non possono essere travalicati. Il governo Draghi ne aveva individuati in tre aree: trasporto scolastico per i disabili, asili e assistenza sociale. Ma l’individuazione dei Lep, ossia del fabbisogno per le prestazioni standard (cioé minime…) da garantire a ogni Regione, dovrebbe superare il criterio della spesa storica sul quale si modulano i trasferimenti di risorse dallo Stato. Ma non è tutto. Un altro tema connesso alla grande questione delle autonomie riguarda la perequazione, almeno per quanto riguarda i territori con più ridotte capacità fiscali. L’introduzione di un fondo per garantire che tutte le Regioni, anche le più piccole, possano far fronte ai bisogni dei loro concittadini senza essere costrette a tartassarli o a privarli dei servizi. Specialmente in un momento delicatissimo come quello attuale, in cui non una ma ben due emergenze, prima il Covid o oggi la guerra del gas, rischiano di azzoppare l’economia e la tenuta sociale del Paese. Un tema, dunque, che potrebbe investire anche un territorio come il Friuli e la Venezia Giulia, il cui governatore Massimiliano Fedriga è tra i più appassionati sostenitori dell’autonomia differenziata e, senza correttivi, rischierebbe di fare i conti con risorse risicate con le quali far fronte a problemi emergenziali di grave entità.
Ecco, questo è il busillis che divide i governatori del Nord da quelli del Sud, i presidenti delle Regioni più grandi da quelle più piccole. Tutti, anche i più feroci detrattori, sognano più poteri. Il problema, poi, sarebbe nell’esercizio effettivo di queste competenze e nel funzionamento del sistema che ne deriverebbe. Se calasse il marziano a Roma bisognerebbe spiegargli che tutti (o quasi) i presidenti di Regione sognano di diventare dei veri “viceré” ma che nessuno di loro vuole restare senza soldi o accettare che gli altri ne abbiano più del dovuto.


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