Giustizia

Intervista a Flavio de Luca: “Meccanismo Tangentopoli, il ping pong tra toghe e stampa”

di Giuseppe Ariola -


Avvocato, docente universitario, scrittore, ma soprattutto manager di svariate società sia pubbliche che private: quella di Flavio de Luca è stata una lunga carriera, contraddistinta da gioie e dolori, in particolare per quanto riguarda l’incarico di commissario straordinario della Flotta “Lauro”. Un ruolo ottenuto da giovanissimo, ai tempi di una stagione politica lontana anni luce da oggi, che gli è costato una trafila giudiziaria lunga decenni. Una storia che Flavio de Luca racconta nel suo ultimo libro, “La Flotta”, uno spaccato degli anni ’80 e ’90 sull’asse Napoli-Roma che assume a tratti le tinte di un giallo e ad altri quelli di un thriller giudiziario, con sullo sfondo intrecci non sempre cristallini, veri e propri scontri per il potere e molte ombre.

Avvocato Flavio de Luca, partiamo dalla sua storia giudiziaria, il fil rouge del libro. Alcune dinamiche sembrano opache, a voler essere buoni.

“Ci sono state delle irregolarità, chiamiamole così, perché tecnicamente nessun Pubblico ministero in realtà violò la legge, ma semplicemente compì quelle che io ritengo, appunto, delle irregolarità, perché un Pm non deve solo cercare le prove che accusano l’indiziato, ma deve anche tenere in considerazione le prove a discarico. Il Pubblico ministero si convince della mia colpevolezza e chiede al Gip, all’epoca si chiamava giudice istruttore, di processarmi. Il giudice emette il rinvio a giudizio e si va davanti alla Corte del Tribunale. A questo punto prima irregolarità, all’epoca consentita, oggi non più. Il giudice istruttore si dimette e passa dalla parte della pubblica accusa, si sposta di ruolo per fare il Pm, per poter proseguire a portare avanti l’accusa in dibattimento davanti al Tribunale, cioè al collegio giudicante. Altra irregolarità: se durante il dibattimento, il Pm riceve notizie o testimonianze comprovanti che l’imputato non ha commesso i fatti per i quali è sotto processo, dovrebbe portarle immediatamente a conoscenza del Tribunale. Invece, nel mio caso il Pm, già giudice istruttore, a cui viene fatta una denuncia specifica sulla estraneità del commissario ai fatti per cui veniva processato, non dicono nulla, si tengono la notizia, la trattengono come fosse una notizia riservata e lasciano che il processo vada avanti fino alla condanna”.

Oltre che grave, sembra una cosa assurda. È andata davvero proprio così?

“Questa cosa succede in modo esplicito, è perfettamente quello che è accaduto. Il Pm, 20 giorni prima di fare la arringa contro di me, riceve due testimoni che dicono: ‘Flavio de Luca è completamente estraneo a questi fatti’ e addirittura testimoniano che il giudice istruttore che lo aveva preceduto potrebbe aver manipolato l’istruttoria. Come poi si dimostrerà, erano state sottratte delle carte dal processo che dimostravano la mia innocenza e che la responsabilità era di altri. Ricordo perfettamente che il 5 maggio 1992 ero in Tribunale perché volevo sentire l’arringa contro di me. A un certo punto un collaboratore mi ricorda che ero stato convocato dal dottor Cafiero De Raho, attuale vicepresidente della Commissione Giustizia alla Camera, per essere ascoltato come imputato di reato connesso. Benché volessi ascoltare le parole dell’accusa nei miei confronti, ho lasciato l’aula perché ero sicuro che il Pubblico ministero, il dottor Quatrano, che aveva ricevuto le due denunce contro il dottor Scarpetta, il primo giudice istruttore, nell’arringa avrebbe in qualche modo reso ragione di questo fatto e quindi magari avrebbe chiesto al Tribunale una sospensione alla luce delle nuove prove. Invece, chiede una condanna a 11 anni, sapendo però che è in corso un’istruttoria a termine della quale io non potrò che essere assolto.  Nulla di illegale, ma molto irrituale, eticamente disdicevole. Se giudice e Pm non ne hanno tenuto conto è perché potevano farlo. Sarebbe come se oggi tutto ciò accadesse tra Pm, Gip e giudici del Tribunale”.

È uno dei temi di grande attualità, anche politica, che riguardano il settore della giustizia.

“Finché magistratura inquirente e magistratura giudicante parteciperanno dello stesso status, non ci potrà mai essere distanza e giudizio critico che consenta un’effettiva parità tra le parti, la difesa sarà sempre in posizione subalterna all’accusa. Quindi partiamo dalla fine: la discussione sulla divisione delle carriere. Prima c’era la figura del Giudice istruttore, oggi c’è un Pm e c’è un gip, ma comunque fanno parte dello stesso ordine, quindi in realtà sono colleghi, forse è diventato più difficile passare da un ruolo all’altro, rispetto al passato, ma fondamentalmente sono colleghi. Non ha senso. In un sistema giudiziario in cui vale il principio della parità tra accusa e difesa, il Pm dovrebbe essere semplicemente quello che negli Stati Uniti è un prosecutor, un avvocato dell’accusa, così come dall’altra parte abbiamo un avvocato della difesa. Questo non toglie niente all’indipendenza del magistrato inquirente, che comunque non è come un avvocato, ha molto più potere perché ha una responsabilità di livello superiore. Tornando all’esempio degli Usa, il principio è che dove c’è responsabilità c’è potere, ma dove c’è potere c’è responsabilità. In Italia il sistema è fallato dal fatto che la legge sulla responsabilità dei magistrati non funziona. Quindi, a proposito della riforma della giustizia, la separazione delle funzioni è importante, ma il problema è che bisogna mettere sullo stesso piano accusa e difesa, un piano di terzietà di fronte al giudice”.

Il sottotitolo del libro lascia intendere che la sua vicenda personale sia quasi un preludio al sistema di Tangentopoli. Cosa intende?

“Nel 1983 stava diventando chiaro ci fosse qualcosa che non funzionava tra partiti politici, imprenditori e in particolare imprese pubbliche. C’erano troppe interferenze della politica sulla nomina dei manager di Stato, sulla compravendita delle aziende, sulle liquidazioni delle grandi imprese pubbliche, sulle cooperative. Ogni volta che veniva nominato qualcuno al vertice di un’azienda, l’Alitalia, la Fintecna, la Finmare, la Tirrenia oppure l’Italstat, si diceva: ‘A chi tocca? Alla Dc, al Psi, al Partito Socialdemocratico, ai liberali?’. In quegli anni scoppia a Genova il caso Teardo, presidente della regione Liguria che viene arrestato per tangenti. Scoppia a Napoli il caso Cirillo, nel quale si dice che la Dc ha dato un miliardo e mezzo di lire alla Camorra per liberare il consigliere comunale democristiano che si diceva aver pilotato degli appalti. Politicamente ci furono delle conseguenze, Berlinguer cominciò a parlare di questione morale. Questa campagna di moralizzazione fa molta presa negli intellettuali, fa molta presa anche su molti giornali, già allora molto più vicini alla sinistra che alla destra, perché è sempre stato così. A raccogliere questo invito alla ribellione sono i magistrati di ultima generazione, come Abbamonte e Violante che in quel momento già era la mente pensante del Pci. Si fa avanti l’idea che l’unico modo per far vincere le elezioni ai comunisti fosse dimostrare l’esistenza di un finanziamento occulto e illecito dei partiti attraverso le tangenti pagate da imprese pubbliche e private. Questo è stato il meccanismo che ha attivato la nascita e il rafforzamento della corrente di magistratura democratica”.

Cosa c’entra questo meccanismo con Flavio de Luca?

“Ormai i magistrati ovunque vedevano un movimento di denaro, come successe alla Flotta Lauro, gestito da qualcuno in odore di rapporto personale intenso con alcuni uomini di potere, deducevano per presunzione che lì ci dovesse essere finanziamento pubblico occulto. Quando fui nominato dal governo Fanfani commissario straordinario avevo solo 30 anni e poi fui confermato da Bettino Craxi. Qualche magistrato iniziò a domandarsi: ‘Ma chi è questo? Ma perché sta lì? A chi risponde questo qui? Sicuramente c’è qualcuno a cui lui rende conto’. Ero un giovane di 30 anni che parlava tutti i giorni con l’allora ministro dell’Industria Altissimo, con i direttori generali di tanti ministeri e gestivo un’enorme quantità di denaro, quindi per presunzione decisero di monitorarmi, accendendo i radar e cominciano a seguire tutto quello che facevo”.

Praticamente un’inversione dei nostri principi, invece della presunzione d’innocenza la presunzione di colpevolezza… Come è stato attuato nel suo caso?

“Sulla base del pagamento dei compensi ad alcuni avvocati, Diego Marmo, già caduto in disgrazia per il caso Tortora, riceve alcune lettere anonime sul mio operato. Sull’assunto ci fossero delle irregolarità, Marmo dispone il sequestro di tutti gli atti della mia gestione, ma non subito, attende il giorno di un incontro tra me e il ministro dell’Industria per la firma di un precontratto di vendita della flotta. In sostanza, fa uscire la notizia del sequestro, il giorno in cui io sono lì a firmare al ministero, insomma, comincia il meccanismo di Tangentopoli. I magistrati cominciano a giocare a ping pong con la stampa. La magistratura fa un provvedimento di sequestro, la stampa un giorno dopo lancia la notizia, riesce ad avere la copia delle lettere anonime e allarga il tema alle consulenze, ai periti, ai viaggi. La magistratura si vede tornare il pallino e quindi apre altri capi di contestazione. I giornali tornano sulla notizia che hanno accennato come dubbio e la trasformano in una vera e propria accusa contestata dalla magistratura. Dopo due mesi di questa partita a ping pong si viene a sapere che c’è una famosa lettera anonima che darebbe a cuore i dettagli di alcune mie malefatte. Questa lettera anonima io ce l’avevo e anche tutti i giornali d’Italia, però aveva fatto la fine di tutte, era una tale falsità che nessuno l’ha presa in considerazione. Ebbene, Cafiero De Raho manda i carabinieri presso un giornale napoletano a sequestrarla, nonostante la avevano già tutti. Crea una notizia nella notizia e automaticamente ne accredita il contenuto. Questo è il meccanismo di Tangentopoli, il ping pong fra magistratura e stampa, che si rilanciano di volta in volta la palla. All’epoca era un po’ rozzo, poi lo hanno affinato: far trapelare la notizia, farla finire sui giornali, poi il magistrato ha il riscontro di quello che dice, magari il giornalista mette qualcosa in più e il Pm allarga l’indagine o magari il cronista raccoglie altri elementi che diventano riferimenti a supporto. Ma il principio è sbagliato, perché Tangentopoli di fatto ha inquinato il procedimento, perché ha trasformato quelle che possono essere gli indizi in prove”.


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