Attualità

Un futuro di nome Vietnam: la nuova sfida all’Occidente

di Redazione -


di FRANCESCO PETRICONE*

È domenica. La cattedrale cattolica di Thánh Giuse, dedicata a San Giuseppe, è gremita di fedeli. Centinaia di uomini e donne, di ogni età, seguono la messa serale, assiepati tra i banchi, dall’altare sotto l’immagine del Beato Carlo Acutis, fino al sagrato. Fuori, la piazza Nhà Chung brulica di giovani e meno, seduti ai chioschetti di strada, a consumare bevande fresche e pasti caldi. Hanoi, Việt Nam, anno del Signore 2023. A distanza di quasi mezzo secolo dall’unificazione, con la vittoria sugli Stati Uniti, la società della Repubblica socialista si presenta così. Dinamica, frenetica, moderna. E anche religiosa. “In due anni, il Vietnam è cambiato molto” mi dice don Phero che mi accompagna in questi giorni.

Un percorso che è partito da lontano. L’economia vietnamita, un treno a livello mondiale, cresce oggi, secondo i dati della Banca mondiale, solo del 4,7 per cento. Dopo il record dell’8 per cento nel 2022, le stime sono del 5,5 e del 6 per i prossimi due anni. Cifre inimmaginabili in Occidente. È la via socialista al capitalismo, decisa dal Đảng Cộng sản Việt Nam, il partito comunista vietnamita. Se non fosse per le bandiere rosse con falce e martello, che addobbano i lampioni, sembrerebbe di stare nel quartiere francese di New Orleans, in Louisiana, invece che a Trang Tien. Sotto i porticati, identici a quelli di Orleans street, si alternano vetrine di piccoli negozi, a centri di grandi griffe internazionali.

La domanda da parte dei consumatori emergenti ha contribuito negli ultimi a creare milioni di posti di lavoro, in molti settori globali: manifatturiero, edilizia, vendita al dettaglio e turismo. Con un settore agricolo che rimane comunque fortissimo. Eppure, a pochi chilometri da Hanoi, in aree rurali floridissime, coltivate per lo più a riso e soia, le comunità mantengono le tradizioni locali. E all’imbrunire, i contadini si riuniscono sulla via principale del paese per acquistare e vendere il cibo, appena catturato o raccolto, che consumeranno la sera: bachi da seta, cosciotti di cane, carpe e serpenti del vicino fiume, oltre naturalmente a riso, soia e altri ortaggi e cereali.

Ci spostiamo a Saigon, Ho Chi Minh City, la capitale economica del Paese, attraversando il famoso diciassettesimo parallelo. Un brulicare continuo di sciami di migliaia di ciclomotori, pronti ad investirti e ancor di più a schivarti, all’ultimo minuto. Tanti, che si comprende perché in questa parte di mondo si concentri oltre la metà degli abitanti della terra. E molte imprese internazionali. Nel cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Vietnam, per noi italiani è possibile entrare senza visto e sempre più numerose sono le aziende nostrane che investono. Perché “qui c’è il futuro” dice Michele D’Ercole, presidente della Camera di Commercio italiana in Vietnam. E il presente è fatto di università – Vanlang University o UEF, l’Università di economia e finanza – che vantano collaborazioni con investitori stranieri, in tutti i settori, attirando migliaia di studenti da tutto il Paese.

È ora di rientrare in patria. Prima però, don Phero mi invita a casa dei suoi genitori, in campagna. È la prima volta nella loro vita che hanno un ospite a cena e sono emozionati. Il sacerdote benedice il pasto e iniziamo a mangiare. Sulla tavola, birra, noodles appena cotti, riso, soia, e carne. “È anatra, non cane”, mi rassicura il sacerdote e tutti scoppiano a ridere. Forse. Mando giù il boccone, senza fare troppe storie, in rispettoso segno di gratitudine per l’ospitalità. E fuori, un paffuto cagnetto, simile ad un maialino, che si nutre nell’aia, me lo conferma. Allevato, pronto per il pranzo di Natale.

*Professore Ordinario di Sociologia dei fenomeni politici e giuridici, titolare della cattedra di Studi Globali e regionali, facoltà di Scienze Politiche e internazionali, Università LUMSA. Consigliere per le politiche sociali del Presidente del Consiglio.

Le opinioni espresse nell’articolo sono personali.


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