Economia

Il mondo dei Brics parla cinese e scocca l’ora dello yuan digitale

di Adolfo Spezzaferro -


Il mondo multipolare si sta avviando verso una inevitabile, fisiologica nuova Bretton Woods. Dove prima la valuta di riferimento a livello globale era il dollaro (moneta di acquisto per il petrolio imposta a tutti) presto ci sarà lo yuan digitale. È la prima valuta digitale emessa da una grande economia (quella cinese), sottoposta a test pubblici ad aprile 2021. Sarà presto la nuova valuta di riferimento dei Paesi Brics, che guarda caso fanno parte anche del mega progetto cinese della “Belt and Road Initiative”. Un progetto infrastrutturale senza precedenti, che collega l’Asia e l’Africa a parti dell’Europa e persino del Sud America. La vecchia Via della Seta di Marco Polo – per intenderci – più canali marittimi, ponti, ferrovie, strade. Una rete che sarà riservata all’uso militare e a quello commerciale. Un progetto che coinvolgerà il 75% della popolazione del globo e il 45% del Pil mondiale. Non stiamo parlando soltanto dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), ma di economie come quelle di India, Turchia, Iran. E soprattutto l’Arabia Saudita, che ha espresso la volontà di entrare proprio nei Brics. Stiamo parlando del principale fornitore di petrolio della Cina, con 81 milioni di tonnellate di greggio esportate nel 2021. E pagate in yuan.
Una nuova Bretton Woods
Ma come siamo arrivati a questo punto, alla definizione di una nuova Bretton Woods che di fatto certifica la deDollarizzazione dell’economia globale? I segnali c’erano tutti, bastava vederli. Come li ha visti Andy Schectman, presidente e fondatore di Miles Franklin Precious Metals. L’imprenditore e analista Usa nei mesi scorsi ha fatto notare che le economie del globo si sono scapicollate ad acquistare oro. Per un motivo semplicissimo: il dollaro non è più la valuta di riferimento. E quindi tanti Paesi hanno voluto rimpatriare il loro oro dagli States. A questo va aggiunto un altro fattore: chi possiede le materie prime ora decide in che valuta commerciare. Questo perché il dollaro oltre a non essere più la valuta di riserva non ha più neanche il monopolio del mercato petrolifero: sempre più Paesi commerciano in yuan e rubli.
La crisi della banconota verde
Dobbiamo però fare un piccolo passo indietro. Le valute negli ultimi tempi hanno subito molti shock sui mercati azionari per cui sono stati in tanti a ricorrere all’oro, come già avvenuto in altri momenti, anche se mai in modo così massiccio. Era dal 1944, da quando è iniziata l’era del primato del dollaro, che non si facevano investimenti in oro, non si comprava il greggio con l’oro. I profondi mutamenti dell’economia globale, scatenati dalle crisi finanziarie dovute a speculazioni finite male hanno di fatto pesato sul dollaro, ormai considerato come rischioso sia come moneta di scambio o di prestito che come valuta per l’acquisto del petrolio. Fino a che nel 2021 Russia, Turchia, India, Polonia, Cina, Kazakistan, Ungheria, Tailandia, Giappone, Brasile, Repubblica Ceca: hanno tutti comprato oro. La dedollarizzazione è stata poi accelerata dalle sanzioni contro la Russia e dalla guerra energetica scatenata in concomitanza con il conflitto russo-ucraino. Un esempio: Cina, India, Ghana, Indonesia, hanno deciso di commerciare tra loro con le loro valute: byebye dollaro. E addio pure all’Opec, che dal 1974 in poi ha tenuto in vita il dollaro da quando è stato sganciato dall’oro. La mossa del presidente Joe Biden di puntare da un lato sulla fusione – per avere energia pulita infinita – e dall’altro sul concetto di “produci americano e consuma americano” – non fa che tamponare e rallentare il processo. Ma se andiamo a guardare la crisi economica Usa, l’aumento dei tassi della Fed praticamente non funziona: l’inflazione non diminuisce.
E qui veniamo al punto: mentre gli Usa sono in affanno e la Ue si autoflagella con le sanzioni contro la Russia – tanto che l’euro a maggior ragione proprio in questa fase è il principale sconfitto di questa guerra delle valute – la Cina fa grandi, grandissimi affari. I contratti e gli accordi della nuova “Belt Road Rail” – il progetto infrastrutturale – vengono regolati in massima parte nella divisa del nuovo yuan digitale cinese. Per dare il polso di come si è arrivati a questo: negli ultimi tre anni lo yuan digitale ha effettuato con successo transazioni al rialzo pari a 20 miliardi di dollari in scambi e accordi. Da cui sono qasi del tutto tagliati fuori gli Usa.
Materie prime, terre rare. E quindi non solo Cina ma Cina(e Russia) alla conquista dell’Africa. Un esempio che dà il polso dell’enorme mutamento in atto: la Nigeria sta vendendo il proprio petrolio alla Cina con un’obbligazione denominata in yuan immediatamente convertibile in oro sullo Shanghai Gold Exchange. L’obbligazione si chiama Petrol Yuan Bond e permette ai Paesi colpiti dalla nostre sanzioni di eluderle. Paesi come l’Iran venderanno il loro petrolio ai cinesi con Petrol Yuan Bond e potranno convertire immediatamente lo yuan in lingotti d’oro. L’Arabia Saudita poi lo sta già facendo.
L’oro e la nuova Via della Seta
Ecco, unendo i puntini – come si suol dire – la dedollarizzazione si manifesta in modo ineluttabile (e forse irreversibile). Primo puntino: l’Arabia Saudita entra a nei Brics. Secondo puntino: tutti i Paesi produttori dell’Opec sono sulla Belt Road Rail. Terzo puntino: non conviene più comprare l’energia in dollari, anche perché ora a proteggere questi Paesi sono soprattutto Cina e Russia. La strada è così spianata alla diffusione dello yuan digitale. Le altre valute locali avranno comunque peso perché legate a asset reali, come oro, metalli preziosi, grano. In ogni caso, uscito dalla porta, il dollaro non potrà rientrare dalla finestra.


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