Esteri

Medio Oriente: cosa succede quando la discriminazione è nelle regole di gara

di Redazione -


Fanno molto discutere i mondiali in Qatar, non tanto per le polemiche sulla trasparenza con cui sono stati assegnati, quanto per le megastrutture megaipocrite e le megaintolleranze che li stanno caratterizzando. Che nei Paesi sabbiosi ad assolati il “bigger is better” sia considerato un assioma, non c’erano dubbi. Come atteggiamenti degli scieicchi petroliferi, che per noi possono apparire, e spesso lo sono effettivamente, fortemente ipocriti. L’ipocrisia è una bestia strana: quando si radica nella società diventa prassi e non si nota più, anzi, diventa costume.
I nostri benpensanti ci ricordano subito dalle colonne dei loro blog che la liberale Europa avrebbe molto da insegnare a questi paesi. Aggiungendo poi che questo mondiale può essere un tentativo di inclusione ed avvicinamento ad una cultura con usanze tanto diverse dalle nostre. Insomma, si critica blandamente ma poi si sdogana.
Di tutti i paesi che si affacciano sul Mar D’Arabia, quello considerato più liberale è l’Oman. Talmente liberale che le donne possono praticare sport, e possono, udite udite, in talune circostanze, scoprirsi braccia e gambe (non oltre i gomiti ed il ginocchio). Nel partecipare ad eventi di corsa a piedi, tra deserto e montagne, si legge nei regolamenti di gara che le donne sono ammesse, se osservano i dovuti acccorgimenti.
Devono coprire interamente gambe e braccia quando attraversano zone abitate o frequentate da persone. Tornate nella natura possono nuovamente scoprirsi, ma non oltre ginocchia o gomiti.
Chi pratica sport, la corsa in particolare, comprende immediatamente quanto discriminatoria sia questa condizione, perchè obbliga le donne a gareggiare in delle condizioni di grande svantaggio e tali da rendere la corsa una tortura, non un’attività piacevole. Certo, le classifiche sono ovunque distinte per sesso, ma la fatica ed il tempo sono variabili che non fanno di queste distinzioni.
Ho lavorato per quasi sei anni ad eventi sportivi in paesi mediorientali e arabi. Ricorderò sempre di quell’impenditrice italo svizzera, grande capitana d’azienda che partecipò ad una attraversata del deserto dell’Oman. A piedi. Donna di polso ed abituata ad avere sotto di se centinaia di uomini. Impeganta ogni giorno a primeggiare in azienda, che decide, come passatempo di correre per 165 km con cibo, vestiti ed acqua nello zaino. Imprese riservate a chi ha grande determinazione e costanza, oltre che possibilità economiche.
Sport ed imprenditoria sono spesso due lati della stessa medaglia: richiedono costanza, strategia, intraprendenza e disciplina. Come può una grande capitana d’impresa pagare del denaro per partecipare ad un evento dove è discriminata da regolamento? Dopo circa una settimana di deserto, entrando gradualmente in confidenza, affronto il discorso.
La leader d’impresa mi risponde ridacchiando e minimizzando la questione, con una punta di razzismo buonista, come se stesse partecipando ad un gioco in un villaggio turistico dove l’animatore mimava la danza degli zulù mentre cucinavano l’esploratore nel pentolone. Insomma, per lei era un gioco, un gioco, con delle persone culuralmente inferiori.
Questi mondiali sono specchio di questo episodio: le migliaia di morti per costruire gli stadi, le diverse regole, le intolleranze sono viste da chi non è toccato come un teatrino folkloristico. E in fin dei conti lo sono, fino a quando dalla platea non si passa sul palcoscenico.


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