Cultura & Spettacolo

Merleau-Ponty e la filosofia fra mondo e realtà

di Redazione -


di ANDREA COLOMBO
Dal 30 gennaio sarà disponibile nelle librerie il nuovo libro di Luca Taddio, dedicato a Maurice Merleau-Ponty, un autore che, forse, non tutti conoscono.

Di chi si tratta?
Merleau-Ponty è uno dei maggiori pensatori del Novecento, riconducibile alla tradizione fenomenologica, sebbene la ricchezza del suo pensiero fatichi a venire contenuta in un solo ambito o in una sola “scuola”: ha scritto di arte, di letteratura, ma anche di scienza, di psicologia e di politica. I suoi testi più noti sono stati composti, perlopiù, negli anni Quaranta. Muore prematuramente nel 1961 all’età di cinquantatré anni. Per il resto, faccio mie le parole di Martin Heidegger quando afferma che, riguardo alla personalità di un filosofo, ci deve unicamente interessare che “nacque quel tal giorno, lavorò e morì”.

Qual è l’idea che sta alla base di questo suo nuovo libro, che si aggiunge a molti altri dedicati alla fenomenologia e alla psicologia della Gestalt?
Leggo e interpreto l’opera di Merleau-Ponty a partire dal rapporto tra apparenza e realtà, in modo particolare a partire dalla natura delle illusioni. L’idea di fondo è che l’apparire non sia falsificabile, ma rappresenti un’apertura al mondo intesa come un piano della realtà. Mondo e realtà sono due facce della stessa medaglia, ovvero non si dà l’uno senza l’altra. Il nostro corpo è un sistema percettivo e il mondo è il correlato di tutte le nostre esperienze.

È il concetto che, nelle pagine del libro, chiama: “piano di immanenza empirico- fenomenico”?
Esatto. La nostra soggettività e il mondo che ci circonda sono relazioni interne alla realtà: è il punto di intersezione tra il piano orizzontale dell’esperienza visibile del mondo (livello epistemologico) e quello orizzontale della realtà invisibile (livello ontologico).

In questo senso, che rapporto vi è tra la filosofia e la scienza? Il suo approccio potrebbe sembrare, per
certi versi, una anti-filosofia: ovvero un privilegiare le teorie scientifiche rispetto a quelle filosofiche. 

In parte. Infatti, non vedo come la filosofia possa affermare autonomamente qualcosa di sensato sulla realtà: per questo esistono le scienze. Tuttavia, la filosofia lavora all’interno della scienza e la fenomenologia, in particolare, indaga il senso che ci lega all’apparire del mondo, con la pretesa di fondare un sapere rinnovando di volta in volta il suo cominciamento a partire da una situazione specifica. Non si tratta, quindi, di abbandonare la filosofia, ma, anzi, di permetterle di lavorare in modo ancora più radicale e approfondito chiarendo quale sia il suo ambito di applicazione. Se la scienza indaga e “scopre” il piano della realtà, la filosofia lavora sul mondo, ovvero sul senso che la realtà può avere.

Quindi dato che la scienza indaga la realtà e non il mondo, e solo il mondo possiede un senso, allora dovremmo considerare la scienza insensata?
No, nella misura in cui vi è comunque un soggetto che si relaziona al sapere scientifico e che abita una società come la nostra, pervasa di sapere tecnologico.

Può farci un esempio che ci aiuti a comprendere meglio la differenza di senso tra la realtà (fisico- matematica) e il mondo (dell’esperienza)?
Prendiamo il gioco degli scacchi. Il cavallo assunto oggettivamente è solo un pezzo di legno, un oggetto fisico (lo stesso potremmo dire di un quadro di Cézanne). Tuttavia, il senso che questo pezzo possiede si dà soltanto nella dinamica del gioco, ovvero implica e presuppone il fatto di giocare. La metafisica classica immaginava un modello perfetto, trascendente, capace di spiegare una volta e per tutte il senso del nostro agire sulla scacchiera: la partita perfetta giocata da Dio, da cui, forse, si può immaginare derivi l’espressione “giocare da dio”. In qualsiasi caso, col tramonto della metafisica alla fine dell’Ottocento, in particolare con il pensiero di Friedrich Nietzsche, si è pensato che tutto fosse relativo. Si pensi, per intenderci, al “post-moderno” così come è stato declinato, tra gli altri, da Gianni Vattimo. Diversamente, qui l’idea è che solo una volta che rompiamo la simmetria data dall’equilibro statico iniziale (immobilità che coincide, non a caso, con la morte e, nel nostro esempio, con i pezzi ancora fermi sulla scacchiera) emergono le mosse giuste e quelle sbagliate: esse sono il frutto della dinamica interna al gioco, e non di un modello ideale e atemporale che esisterebbe al di fuori della nostra partita. L’apparire del senso è quanto troviamo nelle dinamiche interne all’apparire del mondo: Merleau-Ponty ci insegna a guardare al mondo attraverso quest’ordine di senso, che possiamo riscoprire grazie agli strumenti che ci dà la fenomenologia.


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