Attualità

QUANDO CARTABIA S’INCARTA 

di Redazione -

MARTA CARTABIA MINISTRO


DI ELISABETTA ALDROVANDI
Non si placano le polemiche sorte dopo l’entrata in vigore dell’ultima parte della riforma Cartabia, il 30 dicembre 2022, che ha trasformato i delitti puniti con una pena minima di due anni da procedibili d’ufficio a procedibili a querela. Vi rientrano lesioni lievi, le lesioni anche gravissime da sinistro stradale, le minacce aggravate pure se commesse da persone recidive, la truffa, l’appropriazione indebita, la violenza privata, per citare alcuni esempi. Innanzitutto, va sottolineata la stortura di sobbarcare la vittima di un reato dell’obbligo di dare l’impulso all’azione penale nei confronti dell’autore di un fatto penalmente rilevante anche grave, escludendo poi la stessa persona offesa dal far parte del successivo processo qualora questi si concluda con un rito alternativo come il decreto penale di condanna o il patteggiamento. Inoltre, e questo ha dell’incredibile, la riforma comprende anche i delitti commessi con l‘aggravante del metodo mafioso. Poniamo l’esempio del cittadino che riceva una minaccia da parte di un boss locale, il quale gli prospetta un male ingiusto. O il caso di una persona privata della libertà personale a solo scopo intimidatorio. Ebbene, in queste situazioni nessuna azione penale sarà avviata nei confronti di chi commette il reato, se la vittima non presenta querela nei suoi confronti. Ora, la questione non è di scarso rilievo, perché bisogna comprendere il tessuto sociale ed economico di alcune realtà italiane, in cui vi sono persone che vivono vive sotto scacco e minaccia costante da parte della criminalità organizzata, che garantisce loro una sorta di protezione in cambio di prestazioni, che non sono favori, ma obblighi. In che modo la vittima di minacce o lesioni o violenza privata da parte di un membro di un clan mafioso o camorristico potrà avere il coraggio di denunciare quanto subìto, senza temere ritorsioni? La risposta è lapalissiana e scontata. Non lo avrà. Si pensi, ancora, alla possibilità di rimettere la querela a fronte di un risarcimento. Ebbene, questa riforma coinvolge anche il delitto di furto aggravato, e non è un caso: dl 2016 al 2020 sono stati quasi sei milioni i procedimenti penali per questo genere di reato, che intasa i tavoli delle procure favorendo la lentezza dei processi. E allora, la soluzione qual è? Renderlo procedibile a querela, cosa che favorirà la tutela della vittima, che potrà rimetterla a fronte di un risarcimento. Tutto bello, sulla carta, ma non nella realtà, perché il 97,1% dei furti aggravati in Italia resta impunito, non si identifica il colpevole. E quindi, a cosa servirà mai una querela, se non ad aggravare di un ulteriore onere la persona offesa? La riduzione della durata dei processi, che dovranno essere accorciati del 25% entro il 2026 in ossequio alle regole imposte dall’Unione Europea nel PNRR, non può passare attraverso una responsabilizzazione oltremodo gravosa delle vittime di un reato e l’implicito auspicio che, rendendo l’azione penale procedibile solo se preceduta da querela, vi saranno meno processi, perché questo significa aumento esponenziale di impunità e conseguente rischio di aumento del numero dei reati. È fin troppo ovvio dedurre che un delinquente impunito sarà spinto a reiterare le condotte criminose. Quanto richiesto dall’Europa, dovrebbe avvenire attraverso un corposo e lungimirante programma di investimenti, in termini economici e umani, di risorse per l’efficientamento della macchina della giustizia, sempre più lenta, elefantiaca, e sempre più deterrente nell’affluenza di capitali stranieri in Italia. Non è lasciando truffatori e violenti senza processo e senza condanna che migliorerà la qualità della vita delle persone, né, soprattutto, che si potrà continuare a ritenersi uno Stato di diritto.

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