Cronaca

Uccise il padre per proteggere la madre: “Non è legittima difesa”

di Rita Cavallaro -


Era stato assolto per legittima difesa, ma per i giudici del secondo grado 34 coltellate sono troppe. È su questo principio che la Corte d’Appello di Torino ha ribaltato la sentenza nei confronti di Alex Cotoia e emesso la condanna a sei anni e due mesi per aver ucciso il padre Giuseppe Pompa. L’omicidio è avvenuto il 30 aprile 2020 a Collegno, nel Torinese, quando l’allora 18enne Alex si lanciò contro il genitore al culmine dell’ennesima violenza dell’uomo nei confronti della moglie Giuseppina.
La lite era stata scatenata dalla gelosia. Giuseppe, infatti, spiava la donna e, quella mattina, aveva visto un collega di lavoro che le appoggiava una mano sulla spalla. “Dopo averla chiamata 101 volte al telefono, non appena mia madre era rientrata a casa, lui l’aveva aggredita, sembrava indemoniato. Pensavamo che ci avrebbe ammazzato tutti”, ha detto Alex, che in quell’occasione, a differenza delle altre volte in cui suo padre aveva scatenato la sua violenza contro la famiglia, ha deciso di agire, per difendere la mamma e il fratello Loris. Il ragazzo ha preso un coltello e ha colpito più e più volte. Troppe per una difesa legittima, secondo i giudici dell’Appello, che hanno spiegato le motivazioni della condanna puntando sul fatto che mamma e figlio avrebbero potuto sottrarsi al pericolo o “difendersi con un’azione meno grave di quella arrecata”. Perché, sottolinea la Corte, “34 colpi con 6 coltelli sono un’azione aggressiva”, fermo restando il fatto che “presupposti essenziali della legittima difesa sono un’aggressione ingiusta e una reazione legittima e mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un’offesa, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa”. Questi elementi, però, cadrebbero proprio di fronte al fatto che le trentaquattro coltellate e i sei coltelli diversi aprono allo scenario di quella che viene considerata a tutti gli effetti “un’aggressione” e non “una legittima difesa”. La vittima, dunque, sarebbe stata oggetto “di un’azione unilateralmente aggressiva del figlio”, che ha fermato la sua mano solo dopo la lunga serie di fendenti, quando il padre era ormai senza vita. Tanto più che i colpi furono indirizzati soprattutto alla “regione dorsale” e “ci fu una reiterazione”. Ciò, sottolineano i giudici, depone “univocamente nel senso di una condotta francamente aggressiva”.
Inoltre, per la Corte, i ricordi di Giuseppina e di Loris, che hanno difeso Alex raccontando di quei terribili momenti sfociati nel delitto, perdono di valore probatorio, alla luce delle “rilevantissime contraddizioni” tra quanto dichiarato la notte dell’omicidio e quanto sostenuto nel corso del processo. I togati parlano di “giustificazioni illogiche” e “mistificatorie”, nonché di “strategiche e selettive amnesie inequivocabilmente finalizzate a mitigare la responsabilità” di Alex. Un dispositivo che punta l’accento sull’alternativa dell’imputato, che avrebbe potuto mettere in campo un’azione meno violenta nei confronti del padre, colpito tra l’altro alla schiena, elemento che indica che in quel frangente il genitore non rappresentasse un pericolo per la vita dei familiari.
Su queste basi, il 13 dicembre scorso, la Corte d’Appello di Torino ha ritenuto insussistente la legittima difesa e ha ribaltato la sentenza di assoluzione, pronunciandosi per la condanna, seppure attenuata, a sei anni e due mesi. “Alex non è un assassino, io rischiavo di essere uccisa”, è il commento di mamma Giuseppina, “a questo punto mi chiedo se a qualcuno sarebbe importato davvero qualcosa se fossi stata l’ennesima donna ammazzata”.
Promette battaglia anche il fratello Loris: “Non siamo per niente d’accordo con questa sentenza e andremo avanti. Alex deve essere assolto perché ci ha salvato la vita. Se vogliamo che qualcosa cambi, se vogliamo evitare che le donne continuino a morire e che non ci siano più casi come quello di Giulia Cecchettin, la sentenza non può essere questa”.


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