IN GIUSTIZIA – Garlasco: se la malagiustizia comincia in Cassazione
IN GIUSTIZIA – Garlasco: se la malagiustizia comincia in Cassazione
L’omicidio di Chiara Poggi corrisponde ad un inquietante caso di malagiustizia che, come molto raramente accade, si è consumato in Corte di Cassazione, sede del terzo grado di giudizio dell’ordinamento italiano e giudice di legittimità anziché del merito, nel senso che le è precluso l’accertamento diretto dei fatti, riservato ai giudici di primo e secondo grado.
La Cassazione penale, sez. I, si è imbattuta nel caso di Garlasco e lo ha deciso con la sentenza depositata il 18/04/2013, con il n. 44324. A parere di chi scrive, si tratta di una sentenza sbagliata perché viziata dal vizio dei vizi di un giudizio in Cassazione: è entrata nel fatto, e quindi nel merito, scivolandoci, inesorabilmente, riga dopo riga, lungo le 93 pagine della sua motivazione e pur con la consapevolezza di trovarsi nella «“zona proibita” della valutazione del complesso probatorio, che, mentre preclude al giudice di legittimità di rivalutare prove e indizi, deve riscontrare, per espressa volontà del legislatore, l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata». E questo non è avvenuto perché la decisone della Corte di Cassazione ricalca pedissequamente l’impugnazione in appello e poi il ricorso per Cassazione della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Milano e ciò significa che se la Corte di Cassazione fosse stata un po’ più autonoma da tale Procura, l’errore, consistito nella condanna di Alberto Stasi, che aveva un alibi di ferro e l’unico indizio a suo carico, che consisteva nel fatto che sembrerebbe che la vittima avesse aperto al suo assassino, di per sé non sufficiente a condannarlo oltre ogni ragionevole dubbio, si sarebbe potuto evitare.
E questo aggrava ancora di più l’assurda riapertura del processo oggi, sempre per iniziativa della Procura, che rischia di aggiungere ingiustizia ad ingiustizia. Si, perché prove non ce ne sono, come non ce n’erano nel 2013. Nè può aiutare il progresso tecnologico, a meno di chiedere all’intelligenza artificiale anche di inventarsi delle tracce che sulla scena del delitto non ci sono mai state e se c’erano sono state cancellate, come non è dato sapere! La sentenza della Corte di Cassazione è sbagliata perché attribuisce alla Corte d’Appello l’acquisizione della «certezza processuale dei dati fattuali indicati, e la conformità della deduzione al senso comune delle cose» anche se non si capisce di che dati fattuali si tratti, dato che non è stato accertato nulla direttamente a carico di Alberto Stasi, per poi sostenere, come è stato chiesto dalla Procura Generale con le sue impugnazioni che il tempo trascorso da Stasi al computer la mattina del delitto sarebbe astrattamente compatibile con un ingresso nella villa di Chiara Poggi, e questo dimostrerebbe solo la freddezza del suo comportamento.
Correttamente invece i due collegi del merito, Tribunale e Corte d’Appello, avevano concluso che rimaneva «problematico il rapporto tra la supposta azione omicidiaria e l’immediata attività ricreativa rappresentata dalla visione delle immagini al computer mossa da finalità ludica, salvo a sostenere in Stasi la presenza di disturbi psichici». Un fatto tanto grave, hanno sostenuto nei gradi di merito, può significare solo che se l’autore fosse stato Stasi avrebbe avuto dei seri problemi psichici, che andavano accertati con una perizia psichiatrica (che nessuno ha mai svolto). La Corte di Cassazione invece si è appiattita sulle impugnazioni della Procura Generale, che riteneva, all’opposto, che tanta crudeltà e violenza, e contemporaneamente tanto gioco al computer, significassero solo un comportamento freddo, lucido e razionale.
Il punto è che in Cassazione mai si deve reinterpretare il fatto, soprattutto attraverso la valutazione nel merito delle acquisizioni probatorie, e quindi anche se fosse giusta la seconda ricostruzione non sarebbe corretta perché non poteva pronunciarsi in un giudizio di legittimità.
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