Dove è finito il carico di 408 chilogrammi di uranio altamente arricchito
A 48 ore dall’attacco statunitense che ha colpito le centrali di Fordo, Natanz e Isfahan, resta sconosciuta l’ubicazione dei 408 chilogrammi di uranio altamente arricchito che, secondo l’AIEA, sono in possesso di Teheran. Le autorità militari iraniane hanno dichiarato di averli trasferiti in un luogo sicuro prima dell’arrivo dei caccia anti-bunker statunitensi, mentre secondo fonti israeliane sarebbero andati distrutti in uno dei tre centri nucleari colpiti. Il dubbio è rilevante alla luce delle dichiarazioni del presidente statunitense Trump in merito a un possibile cambio di regime nel Paese.
È Davood Karimi, presidente dell’Associazione dei Rifugiati politici iraniani in Italia, a raccontare quello che sta accadendo in Iran, con qualche delucidazione in merito al viaggio sottotraccia dei 408 chilogrammi di uranio altamente arricchito. Simpatizzante del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, il braccio politico dei Mojahedin del Popolo, Davood Karimi nel 1993 ha assistito all’omicidio a Roma di Mohammad Hussein Naghdi, di cui era consigliere. Lo scienziato, che negli anni 70, ai tempi dello scià, aveva lavorato al programma di ricerche ed estrazione dell’uranio dalle miniere in Iran, rimase vittima di un attentato dei sicari di Khomeini e morì tra le sue braccia. E fu il presidente del gruppo dissidente di Karimi, Mohammad Mohaddessin, che nel 2002 rivelò per primo all’occidente l’esistenza del programma nucleare dell’ayatollah Khomeini.
“I 408 chilogrammi di uranio arricchito stanno lasciando l’Iran. Sono stati affidati ai russi dietro benestare statunitense. È difficile nascondere 10 camion in fila all’uscita del deposito di Fordo: li hanno visti poco prima dell’attacco statunitense. E questo non è certo l’unico punto oscuro ad aver costellato il programma nucleare iraniano. Non ultimo il fatto che il nostro gruppo, dopo aver raccontato al mondo l’esistenza di questo programma, è stato oggetto di dure restrizioni in tutta Europa. Noi sapevamo bene come l’Iran avesse raccolto proprio dai Paesi occidentali i pezzi del suo nucleare”, racconta Davood Karimi. “Il pericolo maggiore ora resta il terrorismo che Teheran potrebbe scatenare non solo in Medio Oriente, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Il regime si sente tradito ed è probabile che risponda con una guerra asimmetrica”.
La situazione interna in Iran è di difficile lettura. Al di là della propaganda della Tv di stato, il gruppo NetBlocks.org ha riportato più volte violazioni alla libertà di accesso a internet nel Paese. Le disconnessioni dalla rete globale durano fino a 36 ore isolando gli iraniani dalle notizie del resto del mondo. Il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, che ha pagato un tributo di oltre 120 mila morti nel Paese, è attivo con 20 mila nuclei su tutto il territorio.
“Noi non abbiamo aspettato i bombardamenti israeliani per scendere in piazza”, dichiara Davood Karimi. “Sono in pochi a sapere che prima che iniziasse la guerra, scioperi di protesta stavano paralizzando il Paese da 15 giorni, coinvolgendo camionisti, bazarì, pensionati, insegnanti e altri pezzi della società. Oggi gli israeliani hanno fatto saltare per aria il portone d’ingresso di Evin, il carcere simbolo di Teheran, dove da decenni sono detenuti e torturati i dissidenti del regime, tra cui molti dei nostri. Qui c’è la famigerata piscina della morte dove i detenuti venivano fucilati per poi essere gettati all’interno. Il 17 giugno era accaduto qualcosa di simile presso la prigione di Kermanshah, quando, dopo un bombardamento israeliano nei pressi di un sito militare vicino, i prigionieri avevano chiesto di essere spostati in un luogo più sicuro. Quel giorno le guardie iraniane nel panico hanno sparato contro i prigionieri, ammazzandone 10 e ferendone 30”.
La scorsa settimana Maryam Rajavì (nella foto), leader del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, ha incontrato a Strasburgo alcuni rappresentati dell’Unione Europea. La posizione dell’organizzazione è ostile a un cambiamento di regime guidato dall’esterno. Maryam Rajavì ha chiesto all’Europa di lasciare nelle mani del popolo iraniano la sorte politica del Paese, in nome di un futuro democratico autentico. Ha presentato un piano in dieci punti per un Iran senza nucleare, dove la libertà di pensiero e religione siano garantiti a tutti in ugual misura. “Se Khamenei non ha paura, che scenda in piazza e si confronti con il suo popolo a Teheran. Non abbiamo bisogno di interventi esterni”, afferma Davood Karimi, sottolineando le posizioni della leader. “Noi non vogliamo che Khamenei venga ucciso: desideriamo che venga arrestato e processato nei nostri tribunali per i suoi crimini. La natura di questo regime non è compatibile con il dialogo, come ha ampiamente dimostrato il fallimento delle contrattazioni occidentali sul nucleare. Mettiamo la parola fine a questo deprecabile capitolo”.
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