Per Abbonati

Ecco perché l’effetto Giorgia vince anche su web e social

di Domenico Giordano -

GIORGIA MELONI PREMIER


Se la società digitale trova la sua diffusa, profonda e articolata rappresentazione sulle piattaforme di social network, allora oggi vale la pena chiedersi se e quanto l’effetto bandwagon sia condizionato strategia di presidio dei canali e della rete (…) che può generare una mole tale di interazioni da costruire una variabile sensibile dell’effetto preconizzato nel lontano 1848 dall’attore e comico statunitense Dan Rice? A mio avviso, al termine di questo lungo viaggio negli insight che ci forniscono la misura e la temperatura del presidio social di Giorgia Meloni, la risposta non può che essere positiva. Al tempo stesso, salendo a mia volta sul carrozzone, mi arruolo volontario nella compagnia di coloro che sono fermamente convinti che un like non corrisponde affatto a un voto, sarebbe troppo banale e semplice, ma, diversamente, mi chiedo quanto la massa di interazioni – soprattutto quando non è legata a una presenza di pochi mesi o di qualche settimana, ma è il frutto maturo di una pianta che da tempo vive e vegeta nella giungla dei social network –, può spingere il cittadino a indossare il vestito buono della domenica e andare al seggio, a scegliere prioritariamente quel leader con il quale ha mantenuto una familiarità digitale di lungo periodo.
Quanto, ad esempio, per restare agli ultimi anni, il successo del Partito Democratico alle Europee del 2014 sia stato condizionato dall’irruenza e irriverenza social del primo Matteo Renzi? Oppure, quanto l’exploit del Movimento 5 Stelle alle politiche del 2018, il cui risultato ha superato di molto le più ottimistiche previsioni di autorevoli sondaggisti, è stato determinato dal presidio della rete e delle piattaforme costruito da Gianroberto Casaleggio negli anni precedenti? Per non parlare di quanto il successo della Lega alle Europee del 2019 trovi una motivazione sensata nell’audience social generata da Matteo Salvini.
Ecco, forse è questa una versione, ancora non sufficientemente esplorata e discussa, di quella che Daniele Capezzone definisce likecrazia, quindi della capacità anche di un post che ottiene centinaia di migliaia di love, commenti e condivisioni a indurre l’elettore de-ideologizzato o deluso a unirsi alla valanga di interazioni social: se ci sono così tanti like, allora forse è buono che ci sia pure il mio in quella massa. Un’equazione che potenzialmente ha una propensione più densa a trasferirsi direttamente nel segreto della cabina elettorale. Perché è pur vero che il like non equivale a un voto ipso facto, però non dimentichiamoci mai che anche i follower votano prima o poi.
La grande rincorsa di Fratelli d’Italia all’incoronazione di primo partito del Paese, che un tempo fu del Partito Democratico, poi del Movimento 5 Stelle e in ultimo della Lega, è di converso la grande rincorsa senza sosta di Giorgia Meloni al regno che fu di Matteo Salvini. Il re ha ceduto lo scettro e la corona delle reaction e delle interazioni alla regina dei social.
In conclusione, inoltre, è d’uopo sottolineare una differenza affatto marginale che emerge dalla lettura interpretativa degli insight e che investe le due diverse leadership incarnate da Giorgia Meloni. La prima, quella propriamente politica, risulta la più coinvolgente per le ampie quote percentuali di engagement e di interazioni con i post, mentre la seconda, quella istituzionale, che coincide ovviamente con il suo approdo da fine ottobre a palazzo Chigi, patisce inevitabilmente un calo della portata.
Però, al tempo stesso, se da un lato la social leadership istituzionale sottrae all’audience digitale di Giorgia Meloni quote di attenzione – anche perché deve necessariamente adeguare il calendario delle pubblicazioni all’etichetta imposta dal nuovo ruolo –, dall’altro le consegna una dote ancor più preziosa, cioè un consolidamento effettivo della reputazione, una qualità immateriale di cui nessun leader può fare a meno, che nel caso di Meloni trova conferma nell’aumento significativo dei follower.
Nei tre mesi precedenti il voto del 25 settembre, quindi dalla fine di giugno, gli account Facebook, Instagram, Twitter e TikTok hanno fatto registrare i picchi più significativi di reaction ai post e, di conseguenza, dell’engagement. Sono oltre 12 milioni le reaction incamerate dalla pagina Facebook e poco più di 8 milioni quelle dell’account Instagram, ottenute nel primo periodo, a fronte degli 8,2 milioni incassati nei 100 giorni di permanenza a palazzo Chigi.
Mentre, il confronto dei dati percentuali dell’engagement registrati dall’account TikTok ci appalesa la diversa forza di coinvolgimento tra la leadership politica, in particolare in un periodo di polarizzazione elettorale, e quella istituzionale: 41% è l’engagement che ha incassato l’account di TikTok da giugno a settembre, mentre a partire dall’insediamento a Palazzo Chigi i video hanno ottenuto una quota ordinaria pari al 2,1%.


Torna alle notizie in home