Giustizia, il filo rosso della legislatura: tra riforme e scontri istituzionali
Ogni giorno che passa conferma la sensazione che nell’attuale legislatura la giustizia non è solo uno dei temi centrali, piuttosto è un vero e proprio campo di battaglia su cui governo e magistratura misurano il proprio peso.
L’agenda dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni include una riforma profonda del sistema giudiziario, mentre le procure e le toghe rivendicano l’indipendenza sancita dalla Costituzione proprio per contrapporsi alle modifiche che il governo vuole introdurre. A catalizzare questo scontro è stato il caso Almasri, divenuto emblema di tensioni mai sopite. La vicenda riguarda Usāma al-Maṣrī Nağīm, generale libico accusato di crimini di guerra e ricercato dalla Corte penale internazionale. Arrestato in Italia il 19 gennaio 2025, è stato scarcerato due giorni dopo per vizi procedurali e subito espulso in Libia con un volo di Stato.
L’inchiesta aperta ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati della premier, del ministro della Giustizia Carlo Nordio, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano, con l’ipotesi di favoreggiamento e peculato. Il Tribunale dei Ministri ha poi chiesto l’archiviazione per la premier Meloni, ma non per gli altri tre esponenti, per i quali è stata avanzata la richiesta di autorizzazione a procedere. Sul piano politico l’impatto della richiesta di rinvio a giudizio è stato decisamente forte, tanto più alla luce delle tempistiche che hanno visto, il caso irrompere nuovamente sulla scena in un momento cruciale: appena dopo che anche il Senato ha licenziato la riforma della giustizia, che prevede la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri e il sorteggio dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura per limitare il potere delle correnti della magistratura.
Il nesso tra le due questioni che apparentemente non avrebbero nulla in comune è però evidente a molti, tra i quali la premier e il ministro della Giustizia. Per Carlo Nordio l’inchiesta Almasri è la dimostrazione di quanto sia urgente riequilibrare i rapporti tra poteri dello Stato, riducendo l’“invasività” della magistratura nelle scelte dell’esecutivo. E allo stesso modo la pensa anche Giorgia Meloni che ha tirato nell’ago e anche l’opposizione, accusata di voler sconfiggere gli avversari per via giudiziaria. Dall’altro lato, le toghe hanno reagito con fermezza all’accusa neanche troppo velata di voler rispondere alla riforma della Giustizia servendosi del caso Almasri.
L’Associazione Nazionale Magistrati ha definito l’indagine conforme alla legge e respinto l’accusa di “uso politico” delle inchieste. Il Csm, inoltre, ha approvato una pratica a tutela del magistrato coinvolto, ribadendo che l’indipendenza della giurisdizione è un pilastro costituzionale, non un ostacolo alle riforme. Resta il fatto che il legame tra la vicenda Almasri e la riforma è dunque diretto.
Per il governo, il caso incarna le storture di un sistema in cui i magistrati possono incidere sull’agenda politica con tempismo e modalità discutibili. Per la magistratura, è un banco di prova della propria autonomia, messa in pericolo da un progetto di riforma che, secondo loro, rischia di accentuare la dipendenza dal potere politico. L’episodio, insomma, non è un incidente di percorso: è il simbolo di un confronto istituzionale che attraversa tutta la legislatura. In gioco non c’è solo il destino della riforma, ma l’equilibrio stesso tra poteri dello Stato e la fiducia dei cittadini nella giustizia. L’esito di questa partita determinerà non soltanto il rapporto tra governo e magistratura, ma anche la fisionomia del sistema democratico nei prossimi anni.
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