Attualità

Luca Palamara: “Per i magistrati è l’ora del coraggio. Questo corto circuito deve finire”

di Redazione -


di LUCA PALAMARA

Le parole di Meloni sul Corriere della Sera non mi sorprendono affatto. Le vicende che hanno riguardato in ordine il ministro Santanchè, il sottosegretario Delmastro e da ultimo il figlio del Presidente del Senato Ignazio La Russa hanno nuovamente infiammato il dibattito sulla giustizia. Per meglio delineare quanto in queste ore sta accadendo nei rapporti tra magistratura e politica sono d’accordo con chi propone di utilizzare il sostantivo “corto circuito”. È un corto circuito che ciclicamente si verifica allorquando tutto ciò che “non è sinistra” va al governo. Tanto per essere più chiari in Italia funziona in questo modo da circa un trentennio. In questa fase, nella quale il centro-destra ha preso le redini del comando, tale anomalia del rapporto tra politica e magistratura ha finito per accentuarsi. Da qui il tentativo di una parte della informazione, saldata con la parte più politicizzata della magistratura, di strumentalizzare singole vicende del processo penale di turno per poi trasformarle in un casus belli di rilevanza politica.

Non voglio entrare nel merito delle singole vicende perché è doveroso attendere l’esito degli accertamenti giudiziari. Però nel caso della vicenda Santanchè è grave che la Schlein, nella sua veste di segretaria del Partito democratico, non sappia che nel nostro sistema processuale è assolutamente possibile essere indagati senza saperlo come correttamente ha dichiarato la Santanchè in Parlamento. Questo è chiaramente disciplinato nell’articolo 369 del codice di procedura penale e ben può accadere che la richiesta di proroga delle indagini venga notificata dopo molti mesi all’indagato che conseguentemente può rimanere ignaro della vicenda che lo riguarda. Cui prodest enfatizzare questo aspetto? C’è forse dietro l’idea che sbandierando una informazione di garanzia si debbano in qualche modo sovvertire le scelte democraticamente effettuate dai cittadini italiani nelle recenti elezioni politiche per tornare al potere secondo uno schema ampiamente praticato a partire dal 2011 nella nostra Repubblica? Perché invocare solamente a corrente alternata l’istituto delle dimissioni e la damnatio memoriae in concomitanza con l’iscrizione nel registro degli indagati? Non mi sembra che ad esempio nessuno abbia chiesto le dimissioni del procuratore aggiunto Laura Pedio quando la stessa risultava indagata presso la Procura di Brescia, piuttosto si è scelto prudentemente la strada di attenderne l’esito del giudizio. E perché alcune sentenze di condanna scandalizzano quella parte dell’informazione perbenista ed altre invece vengono considerate carta straccia?

In Italia non basta fare quanto promesso in campagna elettorale, quanto scelto dalle persone, rappresentarle e operare per il loro benessere. Bisogna, invece, essere un ingranaggio di una macchina. Dire sì a determinate logiche, apparati. Ecco perché la priorità delle priorità, se davvero si intende immaginare un futuro diverso, è ristabilire la verità contrastando quel “gotha” che continua a frenare ripresa e sviluppo. Lo stesso Pnrr è a rischio a causa di chi utilizza la propria professione non sempre per il bene comune. Tutti possono sbagliare, ma qui parliamo di un nodo da sciogliere, non certamente di un errore da attribuire a pochi. Non a caso del sistema è stato vittima prima Silvio Berlusconi, poi Matteo Renzi e adesso la prima donna presidente del Consiglio. Siamo di fronte, purtroppo, al solito copione. Non c’è alcuna differenza di colore. Frenare la ripresa, infatti, vuol dire creare meno posti di lavoro per i giovani e di conseguenza incrementare la fuga dei nostri giovani. Una sinistra che non riesce a controbattere agli avversari con le proposte, le idee utilizza l’arma della giustizia. I contenuti vengono sostituiti dagli avvisi di garanzia. Sono più rapidi e dolorosi per abbattere l’avversario di turno.

La nostra Costituzione definisce con puntualità l’ambito delle attribuzioni che sono affidate agli organi giudiziari, così come i compiti e le decisioni che appartengono, invece, ad altri organi, titolari di altri poteri. In virtù dell’art.106, la nostra Costituzione ha voluto una magistratura professionale la cui legittimazione democratica, a differenza della politica, deriva dalla comprensibilità delle sue decisioni e non dal consenso della piazza e quindi del popolo. Il richiamo alla Costituzione testimonia che lo sconfinamento che si è verificato nei rapporti tra magistratura e politica deve essere risolto. Tuttavia, è illusorio tentare di risolverlo con un approccio soft sul tema delle riforme o ancor peggio cercando un lascia passare da parte della intera magistratura come inizialmente anche questo Governo ha pensato di fare. Il doveroso e reciproco rispetto tra le istituzioni dello Stato impone il coraggio delle scelte partendo sempre da una premessa obbligata: mai deve essere messa in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
E a proposito di autonomia e indipendenza il cambiamento della magistratura passa obbligatoriamente dalle nuove generazioni. Qualcosa sta cambiando. Sono tanti quei magistrati che non vogliono essere complici di una contrapposizione tra politica e magistratura dalla quale vogliono chiamarsi fuori. Ne è testimonianza il fatto che a rilasciare interviste contro il Ministro Nordio, il più delle volte al di fuori di ogni galateo istituzionale, sono solo e sempre toghe appartenenti ad una individuata area politica e per lo più magistrati in pensione. Nessuno ha più voglia di schierarsi apertamente contro “a prescindere”, in tal modo confondendo il ruolo del magistrato con quello della opposizione politica. Questa è la vera sfida interna alla magistratura: il coraggio del cambiamento.


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