Cronaca

Omicidio Moro, dai documenti desegretati sviluppi dirompenti

Emergono dettagli nuovi e dirompenti sulla "tragedia italiana" di 47 anni fa: coinvolto anche il Vaticano

di Michel Emi Maritato -


A 47 anni dalla morte di Aldo Moro, lo scenario che emerge da nuovi documenti, testimonianze e riscontri giudiziari lascia intravedere un quadro ben più complesso e inquietante di quanto raccontato dalla versione ufficiale. Il sequestro e l’omicidio dello statista democristiano, secondo le ultime rivelazioni, non sarebbero stati il frutto esclusivo della strategia armata delle Brigate Rosse, ma l’esito di un intreccio tra interessi politici, silenzi istituzionali e complicità trasversali, nazionali e internazionali.

A riportare alla luce queste verità sommerse è il Giudice tributario Raffaele Di Ruberto. Attraverso l’analisi di documenti desegretati, verbali di audizioni dimenticate e riscontri incrociati, offre una lettura alternativa e dirompente della cosiddetta “tragedia italiana”.

Tra gli elementi più inquietanti, spicca il ruolo di apparati deviati dello Stato, che avrebbero omesso di intervenire o addirittura pilotato dall’interno l’intera dinamica del sequestro. La mancata bonifica del percorso seguito dall’auto di Moro il 16 marzo 1978, ad esempio, non fu una svista, ma un’omissione grave dalle responsabilità ben individuabili. Emergono inoltre dettagli sconcertanti sull’attività del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che – secondo la ricostruzione di Di Ruberto – individuò per primo uno dei covi brigatisti dove era detenuto Moro, ma fu inspiegabilmente fermato.

Una verità scomoda, come scomoda fu la sua morte successiva, insieme a quella di altri protagonisti della vicenda come il Colonnello Antonio Varisco, il Capitano Mario Ferraro, e persino Suor Teresilla Barillà, tutti legati a vario titolo al “caso Moro” e scomparsi in circostanze sospette.

Un passaggio chiave riguarda anche il Vaticano, e in particolare Papa Paolo VI. Il pontefice fu il promotore di iniziative concrete per salvare Moro vivo, ma – secondo nuovi riscontri riportati dal magistrato – fu ostacolato dall’interno della stessa Curia e da forze esterne, che mal sopportavano l’idea di una trattativa. Non meno rilevanti sono gli attacchi occulti ai vertici della Banca d’Italia, ritenuti vicini alla visione politica e monetaria di Moro.

Un piano parallelo avrebbe mirato a smantellare non solo un uomo ma anche una linea di indirizzo politico-economico autonomo, in un’Italia attraversata da spinte destabilizzanti. Alcune testimonianze contenute nei fascicoli delle Commissioni Moro 2 e Antimafia parlano di brigatisti a piede libero, mai processati né citati nei principali procedimenti, nonostante prove evidenti del loro coinvolgimento nella strage di via Fani. Altre fonti rivelano una collaborazione segreta tra il Generale Dalla Chiesa e il giornalista Mino Pecorelli, ucciso anch’egli in circostanze mai del tutto chiarite.

L’elemento forse più destabilizzante è la contraddizione tra l’autopsia ufficiale di Aldo Moro e le dichiarazioni dei brigatisti: le lesioni riscontrate non coincidono con le ricostruzioni fornite dai terroristi, sollevando dubbi su dove e da chi Moro sia stato realmente ucciso. A corroborare il quadro, la relazione conclusiva della Commissione Parlamentare Antimafia (gennaio 2023) ha sollecitato ben otto Procure italiane, in primis quella di Roma, a riaprire le indagini per verificare responsabilità omesse o occultate.

Una raccomandazione pesante, che segna un punto di svolta nella storia giudiziaria italiana. I coperchi del diavolo su Aldo Moro, libro del giudice tributario Raffaele Di Ruberto, contiene – come egli stesso ha sottolineato – una prova documentale inedita e dirompente, che non ha solo valore storiografico, ma mira a scardinare una verità di comodo, sedimentata da decenni di omissioni, manipolazioni e compromessi. Non è solo una questione di memoria.

È una questione di verità, giustizia e dignità nazionale. Ma è nella parte finale dell’inchiesta che si arriva al cuore più sconvolgente della rivelazione: secondo i documenti e i tracciati esaminati, Aldo Moro non fu ucciso in via Caetani dalle Brigate Rosse, come da narrazione ufficiale, ma giustiziato in un secondo momento, in un altro luogo, su ordine di un vertice esterno al gruppo armato, riconducibile a una struttura parallela di intelligence legata ai servizi segreti deviati italiani e internazionali, con la connivenza di apparati dello Stato.

Il nome che emerge – con indizi gravi, precisi e concordanti – è quello di Stefano Giovannone, agente del Sismi, come dichiarato da Raffaele Di Ruberto, ufficialmente in pensione al tempo del delitto ma, come dimostrano intercettazioni e testimonianze mai rese pubbliche, ancora attivo e operativo. Sarebbe stato proprio lui a coordinare, insieme ad altri uomini non appartenenti alle BR, la fase finale dell’eliminazione fisica di Moro, temuto per la sua indipendenza politica e per la sua visione di apertura verso il Pci. Un’esecuzione non solo politica, ma anche simbolica, finalizzata a impedire un cambiamento epocale nella struttura del potere italiano. Aldo Moro, oggi più che mai, appare come il martire di una democrazia tradita, la cui morte grida ancora giustizia.


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