Attualità

Quella mafia dei miliardi che s’è rubata il tuo futuro

di Rita Cavallaro -


“I calabresi sono più famosi di Pablo Escobar in tutto il mondo per il traffico di cocaina. Queste persone che vivono qui, tu pensi che non hanno soldi, ma hanno più soldi delle banche”. È questa una delle intercettazioni più emblematiche sullo smisurato potere della ‘ndrangheta, diventata la più importante organizzazione criminale italiana a carattere transnazionale, l’unica a intrattenere rapporti diretti con i cartelli colombiani e ad avere tentacoli in 30 paesi del mondo.


Un esercito di 60mila uomini, divisi in 400 ‘ndrine, nelle cosche che prendono il nome dalle diverse famiglie e che non si fanno la guerra per la scalata ai vertici, ma operano in maniera orizzontale per generare un giro d’affari stimato intorno ai 60 miliardi di euro l’anno, pari al 3,6 per cento del Pil italiano. Il doppio del fatturato del colosso bancario Deutsche Bank, per corroborare l’intercettazione dell’imprenditore colluso Pasquale Bevilacqua, agli atti dell’inchiesta Eureka, la più consistente operazione di polizia, con duecento arresti in tutta Europa e il sequestro di 20 tonnellate di cocaina. Bevilacqua fu intercettato mentre parlava con alcuni esponenti delle cosche Nirta-Strangio, le famiglie note per la strage di Duisburg del 15 agosto 2007 e a capo di quella che è considerata una delle roccaforti della ‘ndrangheta: San Luca. È da quel territorio della Locride, ai piedi dell’Aspromonte che, negli anni Settanta, prenderà vita un’attività così fiorente da permettere alle cosche di accumulare il capitale da reinvestire nel business milionario della droga e, oggi, nell’assalto alla grande finanza mondiale. Il salto di qualità dell’organizzazione comincia con la stagione dei sequestri di persona. Oltre 400 i rapimenti messi a segno dai calabresi tra gli anni Settanta e il Novanta. Sempre più lunghi, più brutali, con ostaggi mutilati, incatenati in prigioni ricavate in buchi sottoterra, per mesi o anche anni.


Era la stagione del terrore calabrese, che si manifesto a livello globale il 10 luglio 1973, quando la ‘ndrangheta rapì a Roma John Paul Getty III, nipote del magnate americano del petrolio, considerato all’epoca l’uomo più ricco del pianeta. I beni del nonno erano valutati 1000 miliardi di lire mentre il l patrimonio delle sue compagnie ammontava a 3.000 miliardi. La ‘ndrangheta era convinta che John Paul Getty I avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di riportare a casa il sedicenne. La richiesta del riscatto fu di 17 milioni di dollari, ma il petroliere si rifiutò di trattare con i rapitori. “Ho 14 nipoti, se pagassi anche un solo centesimo li rapirebbero tutti”, disse. Così al giovane Paul mozzarono un orecchio e lo inviarono alla redazione del Messaggero, insieme a una ciocca di capelli. Lo tennero in ostaggio nei fortini delle ‘ndrine per cinque mesi, finché il magnate dovette cedere alle pressioni del figlio, che lo convinse a contribuire alla metà del riscatto, fissato infine in 3 milioni di dollari.


Nel 1998 la Commissione d’inchiesta antimafia, analizzando il caso Getty, scrisse che “con i proventi dei sequestri furono comprati camion, autocarri, pale meccaniche e si diede vita alla formazione di ditte mafiose nel campo dell’edilizia le quali parteciparono alle gare per gli appalti pubblici”. La ‘ndrangheta era dunque diventata l’industria dei sequestri da centinaia di miliardi, gestita da poche cosche di San Luca e Platì nel più totale spregio per le forze dell’ordine. Anzi, chi tentava di ostacolare la scalata delle famiglie doveva essere eliminato. In quest’ottica è stata emessa la condanna a morte del brigadiere eroe Carmine Tripodi, il comandante della stazione dei carabinieri di San Luca ucciso in un agguato la sera del 6 febbraio 1985. Un commando sbarrò la strada alla sua auto ed esplose sette colpi di lupara. Il militare riuscì a rispondere al fuoco, colpendo uno dei sicari, ma venne trucidato. E oggi, a 38 anni dal suo delitto rimasto senza colpevoli, quattro persone sono indagate. Il loro dna sarà comparato con i campioni di sangue estrapolate dal Ris di Messina su alcuni reperti, durante un accertamento tecnico irripetibile effettuato la settimana scorsa.


Tripodi fu il primo carabiniere ucciso in un agguato dalla criminalità, un simbolo della lotta dello Stato alla ‘ndrangheta, un servitore della patria che, in quel momento, stava sferrando i primi colpi ai criminali. Fu lui a guidare le indagini e ad arrestare i responsabili del rapimento di Giuliano Ravizza, il re delle pellicce Annabella rapito a Pavia il 24 settembre 1981. Sempre Tripodi gestì il caso Carlo De Feo, l’ingegnere napoletano per la cui liberazione fu pagato un riscatto di 4,4 miliardi di lire. Il brigadiere accompagnò De Feo sui luoghi della prigionia e scoprì gli otto rifugi dove era stato tenuto l’ostaggio, individuò le persone e tracciò l’organigramma delle cosche, portando a una quarantina di arresti tra le famiglie. Andava fermato, per poter perpetrare la stagione dei sequestri, archiviata poi con la legge 81 del 1991, il provvedimento che congelava i beni alla persona sequestrata, al coniuge e ai parenti. Così la ‘ndrangheta trasferì i miliardi in Canada e li dirottò in una banca di New York, per reimpiegarli in quello che, ancora oggi, è il business principale: il traffico internazionale di cocaina, un giro da 30 miliardi l’anno. Altri 20 miliardi arrivano dal riciclaggio di denaro sporco, un vero e proprio assalto alle imprese più redditizie, infiltrate dalle ‘ndrine, agli appalti pubblici e alla finanza mondiale, con l’acquisizione di interi pacchetti azionari sul mercato finanziario internazionale.


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